Materiali nella cartellina

Discipline da attraversare e da trasformare (Paola Di Cori)

 

 
Paola Di Cori
Università di Urbino
 
Discipline da attraversare e da trasformare
Nuovi traguardi nella didattica delle scienze sociali[1]
 
 
Parte I
 
1. Riferimenti antichi e recenti 

 

Pur nei limiti di una estrema sinteticità, vorrei cercare di mettere in evidenza quali sono i temi e le preoccupazioni che caratterizzano la riflessione attuale su scuola e scienze sociali, rispetto a quelle contenute in due importanti pubblicazioni su questo argomento, uscite nel 1977 e 1978[2]. Mi soffermo in particolare su due aspetti che mi sembrano rilevanti: 1) i cambiamenti nei referenti teorico-metodologici, e 2) i nuovi significati che sono intervenuti a modificare la definizione stessa di scienze sociali; se e in che modo queste ultime si distinguono da altri saperi e scienze.

Un elemento che salta agli occhi anche a una lettura superficiale, è la diversità di riferimenti, e aggiungerei anche, di umore, che caratterizza i tempi attuali se confrontati all’atmosfera che impregnava i testi di allora. Pur essendo assai critici e problematici, i volumi pubblicati alla fine degli anni Settanta sono in realtà percorsi da un tono generale indiscutibilmente propositivo, promettente e nell'insieme ottimista, ben diverso da quello assai più preoccupato e incerto che purtroppo pervade il momento attuale. Erano inoltre stati concepiti (come alcuni autori non mancano di sottolineare) all'ombra di alcuni numi (e nomi) tutelari: quelli di Marx, Weber, Parsons. Di questi tre, mentre Parsons da tempo non costituisce più un punto di riferimento, Marx ha subito abbondanti rivisitazioni, stravolgimenti e deformazioni; è soprattutto Weber, il più 'disincantato' dei tre, a rimanere come riferimento valido anche per l'oggi.

Le questioni chiave di allora, coerentemente con quei numi, riguardavano principalmente contesti e strutture socio-politico-economiche. Del tutto trascurato, se si pensa al ruolo che avrebbero ricoperto di lì a poco, ogni riferimento alla rivoluzione prodotta dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione, divenuto essenziale elemento costitutivo per identificare la società contemporanea. Ancora troppo poco era inoltre lo spazio riservato alla 'cultura' - intesa nel più ampio senso che a questo termine, accanto ai successivi sviluppi dell'antropologia, hanno contribuito a dare soprattutto i "cultural studies" inglesi - e che è attualmente al centro degli interessi di molti studiosi e docenti di scienze sociali.[3] Come conseguenza, quasi assenti erano anche le preoccupazioni relative alle identità sessuali, religiose, etniche.

Che siano questi i punti che maggiormente contraddistinguono la società in cui viviamo, e quindi le aree di studio relative, mi sembra difficilmente contestabile. E di conseguenza, se dovessi indicare, a titolo puramente personale, alcuni dei testi (e dei nomi) che negli ultimi trent'anni, e in particolare nel decennio trascorso, sono diventati riferimenti importanti - oltre e al di là, (in qualche caso accanto a Marx, Weber e Parsons) - farei riferimento ad alcuni libri che riflettono meglio e più di altri temi divenuti cruciali dagli anni '90 in avanti, e riguardanti: la povertà e l'infelicità diffusa, presente oggi non solo nel cosiddetto terzo mondo, ma anche in occidente (si veda a questo proposito la fondamentale inchiesta coordinata da Pierre Bourdieu dal titolo emblematico La misére du monde,[4] in Italia passata del tutto sotto silenzio); le caratteristiche della globalizzazione, espressa dai diversi libri pubblicati da Zygmunt Bauman dopo l'89, tra i quali mi limito a ricordare Modernità e olocausto (1989), Modernità liquida (1998), Dentro la globalizzazione (1998);[5] oltre a quelli di Appadurai Modernity at large (1996) in italiano intitolato Modernità in polvere[6]) e di Saskia Sassen, autrice di importanti ricerche sulla vita urbana nei grandi agglomerati del primo e del terzo mondo, tra le quali citerei almeno Le città nell’economia globale (1994)[7]; la informatizzazione della società come emerge dal lavoro di Manuel Castells La nascita della società in rete (2002); la crisi dell'ecosistema, analizzata in numerosi studi da Vandana Shiva a partire da Monoculture della mente;[8] l'accento sulla rivoluzione nell'organizzazione dei saperi e sulle nuove esigenze formative del secondo millennio come espresso dal libro La testa ben fatta di Edgar Morin (1999)[9]; la centralità dei mezzi di comunicazione di massa a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni ’70, brillantemente analizzata da Roger Silverstone in libri come Perché studiare i media?(1999)[10]. A questi aggiungerei almeno altri due titoli - Soggetti nomadi di Rosi Braidotti (1994)[11] e Corpi che contano di Judith Butler (1995)[12] – assai influenti nel contesto italiano, ed emblematici di quell'immensa attività del femminismo, di interrogazione riguardante le identità sessuali e le differenze di genere, che da Juliet Mitchell a Carla Lonzi, da Luce Irigaray a Luisa Muraro, a partire dalla metà degli anni '60 ha rivoluzionato l'orizzonte di vita e di attività intellettuale di tante studiose di scienze - sociali, umane, o esatte che siano.

Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del nuovo millennio, ci dicono questi testi, non più scritti da figure tutelari e tuttavia ottimi strumenti di riflessione sul presente, c'è stata l'informatizzazione del mondo, l'affermazione della società globale con la ridistribuzione iniqua delle ricchezze e il crescente impoverimento di zone sempre più ampie del pianeta, l'emergenza ecologica; e insieme anche una crescente attenzione per la costruzione delle soggettività e l'esigenza di provvedere con strumenti adeguati a bisogni formativi ormai profondamente mutati. E' su quest'ultimo punto che il testo del 1977 - Scienze sociali e riforma della scuola secondaria - si rivela ancora un buon titolo di riferimento sul tema.

 

2. Scienze sociali e/o umane? 

Volendo telegraficamente suggerire alcuni grandi cambiamenti di prospettiva per le scienze sociali dagli anni ’70 a oggi, tra le caratteristiche che mi sembrano importanti porrei al primo posto l’avvicendamento, sovrapposizione, sostituzione, omologazione, avvenuta tra scienze "sociali” e scienze "umane”. Per dirla in soldoni: tra le une e le altre lo scambio e l'affinità di obiettivi e di metodologie utilizzate è diventato così frequente negli ultimi decenni, da avere reso scarsamente distinguibili i confini esistenti tra le due, e sempre più difficile definire quale e dove passa una eventuale frontiera che li divide.

Sempre più spesso, infatti, interessi, temi, finalità, che nel corso degli anni ’70 erano stati caratteristici delle scienze sociali, nel passaggio al decennio successivo cambiano direzione. Questo è molto evidente soprattutto per la storia. Fare storia, per tutti gli anni ’60 e ’70 significherà soprattutto misurarsi e allearsi, prendere a prestito categorie e metodologie, con discipline come l'economia, la geografia e l'antropologia (in Francia tutte e tre queste discipline; in Inghilterra soprattutto l’economia, sia per storici di origini marxiste che per quelli di ascendenza fabiana e laburista). Il che, ragionando in termini di insegnamento di queste materie nelle scuole, significherà una accentuazione degli aspetti materiali dell’organizzazione sociale, e un grande interesse per la vita quotidiana – vale a dire un declino del vecchio modello storicista a favore di una spiccata attenzione nei confronti della discontinuità e del presente, e conseguente affermazione di queste due dimensioni come chiavi di lettura predominanti.[13] 

Questa tendenza si rovescia nel passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80, soprattutto in ambito anglofono, dove alla spinta verso le scienze sociali (economia, sociologia, diritto) dei decenni precedenti, si sostituisce un mutamento di direzione. La novità è ora l'emergere di una tendenza a riavvicinarsi alle cosiddette scienze umane: la letteratura, la filosofia, i saperi relativi alla comunicazione (linguistica, semiotica, media), le arti visive. E' nel corso degli anni Ottanta, a mio avviso, ma la questione merita di essere approfondita ulteriormente, che si produce quello slittamento / sostituzione / sovrapposizione / scambio di significato tra 'scienze sociali' e 'scienze umane'. Sempre più spesso, infatti, sociologia e antropologia mutano aspetto, sembrano 'de-socializzarsi' per essere sottoposte a un processo di 'umanizzazione'. Così infatti viene esplicitamente sottolineato da quello che per il senso comune dovrebbe essere uno strumento didattico per le scienze sociali (a scriverlo sono infatti affermati studiosi di queste ultime) e che invece è pubblicato - dall'editore Laterza nel 1985 - con il titolo inequivocabile di Manuale di scienze umane. Suddiviso in tre sezioni dedicate all'antropologia, psicologia e sociologia, ciascuna delle quali è scritta rispettivamente da Bernardo Bernardi, Luciano Mecacci e Franco Ferrarotti.

L'enfasi su 'umano' in sostituzione di 'sociale' è il segno di una situazione in cui si sancisce il definitivo superamento del marxismo e delle interpretazioni più visibilmente marxisteggianti, a favore di una visione dove all'attenzione per le strutture economiche e per le stratificazioni sociali, subentrano le preoccupazioni per ciò che è 'umano' - sia in senso biologico (tecnologie riproduttive, epidemie, malattie, ma anche nuove pratiche e immaginario sul corpo, sui cyborg, ecc.) sia sul piano politico (diritti civili, movimenti dei sans papiers, ecc.), e storico (si parla di crimine contro l'umanità nel caso dei processi a gerarchi nazisti responsabili di stragi e deportazioni, o in quelli di militari e dirigenti coinvolti nelle più recenti guerre nella ex Yugoslavia, in Iraq, Afganistan, nella base di Guantanamo, ecc.).

Tale assimilazione e scambio dei termini si accompagna inoltre a un cambiamento nelle alleanze disciplinari, all’interno del quale si assiste all’emergere di nuove gerarchie di saperi e all’inarrestabile fortuna di quelli dedicati alla comunicazione (linguistica, semiotica, media, arti visive), accanto a un rinnovato interesse per la filosofia e la letteratura. Queste ultime saranno le regine incontrastate dei festival di grande successo che da qualche anno si svolgono a Mantova, a Modena, a Roma e in altre città italiane.

 

3. Ascesa e declino dei concetti 

Dal punto di vista epistemologico, nel passaggio tra gli anni ’70 e ’80 si assiste alla affermazione dei concetti come strumento essenziale di organizzazione della conoscenza e della sua trasmissibilità. (Ricordo qui una importante messa a punto sul tema nei contributi di Clotilde Pontecorvo dei primi anni '80).[14] Questo fenomeno è riconoscibile un po' in tutte le discipline; la tensione nei confronti della individuazione dei concetti fondamentali costituisce certamente uno dei tratti caratterizzanti del crescente bisogno di affermare nuove identità scientifiche. Quelli che da un punto di vista disciplinare e di apprendimento si chiamano concetti, dal punto di vista culturale più ampio si declinano come parole-chiave e categorie portanti. Spesso infatti si parla indifferentemente di concetti, di parole-chiave e di categorie come se si trattasse di termini intercambiabili; e nonostante qualche sforzo per stabilire differenze e fornire definizioni, l’uso intercambiabile di questi termini è una pratica diffusa, da accettare con la rassegnata saggezza di chi constata un dato di fatto. Con gli anni Novanta, non a caso, ha inizio la proliferazione, ormai diffusa a livello quasi epidemico, di dizionari, lessici, enciclopedie - strumenti che spiegano, ma soprattutto che si sforzano di definire parole sempre meno definibili; la corsa per 'fermare' i significati di una realtà che sembra sfuggire a velocità inarrestabile diventa uno dei fenomeni più cospicui dell'ultimo decennio.

Il momento alto di una tendenza a cogliere le mutazioni in atto, è dato dalla struttura e indice della “Enciclopedia Einaudi”, pubblicata a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. In essa - ormai svanita ogni illusione di attribuire un significato univoco alle parole - la parte del leone la fanno proprio i concetti, o meglio i ‘pacchetti di concetti’. Il caso dell’Enciclopedia Einaudi è interessante perché in essa, più e meglio che in tanti saggi interpretativi degli umori del tempo (come non ricordare almeno l'influente raccolta pubblicata sempre da Einaudi nel 1979, e intitolata per l'appunto Crisi della ragione?)[15], si esprime in modo paradigmatico la tensione verso una ormai impossibile sistemazione definitiva e irrigidita della conoscenza. Quest'ultima è strettamente collegata all'ambizione di poter metter mano alla scrittura di una nuova grammatica dei saperi il cui alfabeto è costituito dai concetti. Al tempo stesso, l’idea originale dell’Enciclopedia, evidenziata dalla immagine ovoidale - il "grafo", la rete entro la quale i concetti sono sì sistemati ma soprattutto raggruppati entro confini permeabili e mutevoli, che possono e devono essere attraversati di continuo – è anche quella di affermare quanto sia ormai diventata una impossibile pretesa l’idea di fornire definizioni permanenti e immutabili: lo scopo dell'Enciclopedia Einaudi non tende, come quella settecentesca di Diderot e d'Alembert, a mostrare le meraviglie del progresso umano e scientifico, né tanto meno serve per irrigidire le conoscenze acquisite, ma al contrario l’impresa è stata concepita allo scopo di evidenziare quanto queste ultime siano da considerarsi come forme di apprendimento transeunti, mutevoli, e quindi passeggere; diciamo pure: squisitamente ‘storiche’.

Nel giro di poco tempo, quello che sembrava un punto d’arrivo - l'individuazione di strumenti cognitivi rassicuranti ed efficaci - subirà un ridimensionamento all'insegna del più puro spirito 'disincantato', grazie a due contributi importanti pubblicati nel corso degli anni ’80 – il saggio di Clifford Geertz, Blurred genres (generi confusi) del 1980,[16] e l’idea dei “concetti nomadi” avanzata in una importante raccolta del 1986 dal titolo, Da una scienza all’altra. Concetti nomadi, a cura di Isabelle Stengers.[17] In questo libro un gruppo di scienziati e di 'umanisti' si interroga su cosa avviene di alcune concettualizzazioni una volta che esse passano da una scienza cosiddetta dura a una morbida, e viceversa; viene in tal modo problematizzata e resa visibile la porosità dei confini tra saperi in apparenza divisi e lontani. Anche questo era l’obiettivo di Geertz, il quale nel suo saggio sottolineava soprattutto il fatto che ormai eravamo arrivati a una vera e propria erosione delle barriere disciplinari.

Scrive Stengers nella introduzione al volume sopra citato: "Abbiamo… a che fare con un campo in movimento, instabile, elaborato dagli stessi attori che è chiamato a definire, a sua volta ridefinito continuamente dalle operazioni che vi vengono tentate, siano queste vincenti o fallimentari." (p.10). Con queste parole, Stengers sottolinea con forza: 1) il ruolo chiave delle pratiche nella definizione delle scienze; 2) la presenza ineliminabile degli operatori, vale a dire l'importanza basilare dell’elemento soggettivo nella costruzione delle scienze.

Siamo nella seconda metà degli anni Ottanta; un decennio nel quale l'attenzione nei confronti della soggettività e dell'identità raggiunge il suo apice - valga per tutti la messa a punto della categoria di 'genere' (nel senso di gender) nel 1986 da parte della storica Joan Scott, che attraversa tutte le aree e che avvia nelle scienze sociali il dibattito sulle identità sessuali ancora così presente nelle nostre pratiche e nei nostri studi.[18] A questa enfasi sulla soggettività farà seguito nel decennio successivo l'interesse intorno al concetto e area della "cultura", su cui per mancanza di spazio non posso qui soffermarmi.[19] Ed è così, forti soprattutto dei nostri limiti, esitanti, disincantati/e, ma ancora dotati di una robusta curiosità, che entriamo nel terzo millennio.

Come riassumere in poche battute conclusive quanto è accaduto nell’ultimo decennio? Penso in particolare almeno a due fenomeni che, per così dire, stanno sotto gli occhi di tutti.

Da un lato, anziché sfumare, la tensione verso la creazione di nuovi concetti, la messa a punto di mappature sempre più complesse delle conoscenze si è accentuata, dando vita all’attuale proliferazione di specialismi, e a un inarrestabile processo di esaltazione della potenziale sistemazione disciplinare e disciplinata di ogni ramo delle conoscenze. Questo è specialmente evidente in un paese come l’Italia, dove accanto alla scarsa tradizione e dimestichezza nei confronti di pratiche pluri- e inter- disciplinari, si aggiunge una sviluppatissima ansia di ottenere conferme sul piano scientifico, troppo spesso raggiunte attraverso una esasperata ricerca di regole e ordine, di costruzione di 'gabbie' per ingabbiare i saperi che sfuggono, sistemandoli in aree di recente nascita su cui si reclamano diritti di prelazione. L'ossessione concettuale, e la sua conseguente pericolosità, è evidente (ahinoi) nella fortuna di cui ancora godono le 'mappe concettuali' nell'ambito della didattica scolastica, in particolare per ciò che riguarda la storia.[20]

Dall’altro lato, il processo di nomadismo concettuale è diventato quasi inarrestabile, e con esso sono anche proliferate le commistioni, le mescolanze tra aree di sapere anche molto distanti per origine e obiettivi, la nascita di nuove conformazioni. Una conferma in proposito è data da alcuni lavori che vanno in questo senso, importanti per le scienze sociali e/o umane che si voglia (a mio avviso ogni ulteriore tentativo di separarle e distinguerle, oltre che poco utile, è destinato a fallimento); mi riferisco allo studio del sociologo nordamericano Andrew Abbott, Chaos of Disciplines, pubblicato nel 2000,[21] e al volume di una studiosa di narratologia e semiotica, l'olandese Mieke Bal, Travelling Concepts in the humanities. A rough guide, del 2002.[22]

Anche se è inevitabile avviarsi verso un progressivo indebolimento degli steccati tra quelle che ormai non sono più né scienze né aree di conoscenza ben definite, ma solo vuote etichette, percorrere una strada non disciplinare è comunque assai difficile nel nostro paese.[23] D’altra parte, si tratta di un percorso obbligato, e dovendo pensare a qualche strategia per favorire una tendenza ad abbattere gli steccati disciplinari, mi viene da dire che le scuole, e in particolare i licei dove si insegnano scienze sociali (e insieme naturalmente quelle umane ed esatte), sono dei luoghi molto adatti per sperimentare forme di diffusione di conoscenze appartenenti ad aree ormai disciplinarmente ibride; molti moduli sono da anni di fatto concepiti così. Occorre infatti capire che siamo già ben oltre alle schermaglie su discipline, etichette e materie, prive ormai di ogni significato. Come giustamente ha sottolineato Immanuel Wallerstein, uno studioso che da anni proclama la necessità di trasformare radicalmente il modo di concepire le scienze sociali: il compito più urgente è oggi quello di "aprire" le scienze sociali, abituandoci a considerare le discipline, per parafrasare il titolo di una sua recente conferenza, come entità problematiche e dal significato altamente incerto.[24]

  

 

Parte II

 

4. Sociale, umano, e poi…? 

Poiché continua a essere un elemento problematico nella definizione dei saperi, e si tratta di un punto assai rilevante anche per la organizzazione curriculare, vorrei riprendere quanto sopra accennato circa il fenomeno di sovrapposizione e scambio esistente tra i termini “sociale” e “umano”. Al di là della maniera disinvolta con cui ministri di orientamenti diversi decidono di utilizzare l’uno o l’altro termine in base all’ispirazione del momento e alle proprie convinzioni politiche e/o religiose. Lo scambio e la sovrapposizione tra i due termini, più che essere frutto di superficialità, ignoranza, o preconcetto ideologico, rappresentano a mio avviso anche dell’altro. Credo infatti che in tale confusione ci siano elementi di grande interesse da non sottovalutare, che forse nascondono qualcosa di inquietante. E su questo vale la pena di soffermarsi, per capire che non siamo precipitati in questa situazione all’improvviso, e senza soluzioni di continuità, ma ci siamo arrivati seguendo dei percorsi anche tortuosi, per quanto spesso a una velocità che ha impedito di cogliere passaggi, transizioni e svolte.

Tentiamo un brevissimo, quasi fulmineo profilo di questi mutamenti.

Anche a uno sguardo superficiale appare evidente che il termine ‘sociale’, fino a quel momento di uso poco frequente e circoscritto, si espande grandemente negli anni ’60 e ’70; vale a dire nei decenni effervescenti di mobilitazione di ampi strati della società; delle rivolte operaie, studentesche, femministe; delle ideologie marxiste e marxisteggianti. ‘Sociale’ si affermerà stabilmente nel passaggio tra gli anni ’70 e ’80 un po’ in tutte le aree disciplinari, discorsive e politiche.

Il termine ‘umano’, invece, in questo stesso periodo viene utilizzato soprattutto in alcuni contesti specifici – in particolare nel linguaggio filosofico e religioso; ha un aspetto ancora troppo vago, astratto, sfuggente, per poter essere utilizzato da tutti. Anzi, in qualche caso sembra addirittura contrapporsi alla più concreta e materialistica realtà che sostiene ‘sociale’ come una polarità più indeterminata, quasi spiritualista.

Nel passaggio tra gli anni ’80 e ’90 avviene invece un processo di convergenza che porterà a una progressiva dislocazione dei due termini, e ‘sociale’ tenderà ad arretrare, rattrappirsi, ritirarsi per ricomparire mutato. Già verso la fine degli anni ’70 ‘sociale’ aveva cominciato a perdere parte della propria centralità; i suoi stretti collegamenti con ‘collettivo’, ‘comunitario’, e soprattutto la contrapposizione a ‘individualistico’, ‘egoistico’, ‘personalistico’, divennero meno accentuati e rigidi, fino ad assumere una fisionomia sfumata e più nebulosa. Questo processo è parallelo alla valorizzazione di parole come ‘privato’ e ‘personale’ - a lungo considerati termini estranei alla sfera pubblica e politica, e marginali all’interno del dibattito scientifico - che il femminismo aveva cominciato a operare fin dagli anni ’60. (Vi ricordate le famose “Lettere dei compagni di base a ‘Lotta continua’ ”? Il fenomeno si accompagnava a quello che venne definito dalla stampa quotidiana di allora come un ‘ritorno nel e del privato’, e che aveva peraltro già attraversato una profonda trasformazione nel corso dell’elaborazione femminista relativa alla formula “il personale è politico”).  

Intanto, ‘umano’ acquistava nuove e inaudite connotazioni. Basta ricordare che sono questi gli anni in cui si comincia a parlare di ‘genoma umano’ [il progetto sul genoma umano ha inizio negli Stati Uniti intorno al 1990], e i paradigmi che per tanti decenni avevano posto la fisica al centro dei modelli prevalenti nelle scienze, lasciavano il posto ad altri provenienti da elaborazioni in biologia e nella genetica. Questo fondamentale cambiamento di prospettiva in campo scientifico avrebbe contribuito a trasformare radicalmente le concezioni dominanti relative ai due ambiti fondamentali di ‘natura’ e di ‘vita’, sui quali l’attenzione è stata crescente. (basti pensare alle questioni riguardanti le tecnologie riproduttive).  

A livello più generale, in concomitanza con il crollo del muro del Berlino, la fine dei blocchi e delle ideologie prevalenti nei decenni precedenti, si verifica l’emergere di forti preoccupazioni relative ai diritti umani e ai crimini contro l’umanità: nei primi anni ’90 la guerra del golfo e i massacri in Bosnia avrebbero riportato in posizione dominante e a pochi chilometri dall’Italia la questione dei massacri di civili inermi, le violenze e gli stupri di massa. Non meraviglia che proprio questo sia il periodo in cui si assiste alla crescente e inarrestabile fortuna di alcune pensatrici e pensatori che hanno messo al centro del proprio impegno intellettuale la condizione umana, prima tra tutti Hannah Arendt. La quale infatti così aveva deciso di chiamare un suo libro del 1958 – The Human Condition

Come noto, in italiano il libro era stato tradotto nel 1964 con il titolo di Vita activa, privo di riferimenti al titolo originale, tanto il termine sembrava in quegli anni poco appetibile. Nella seconda edizione del 1989, che ha una introduzione di Alessandro Del Lago, anche il titolo ha subito un significativo mutamento, e rispetto al precedente diventa: Vita activa : la condizione umana. Con la scusa di una maggiore fedeltà alle intenzioni dell’autrice, si utilizza un termine che ormai non desta più problemi.

Nei decenni ’60-’70 l’uso del termine “sociale” circola parallelamente alla diffusione in Italia – finalmente! – di discipline come la sociologia, la psicologia, l’antropologia (note infatti come ‘scienze sociali’), mentre la parola “umano” compare di solito in secondo piano. La sostituzione e slittamento successivi dell’uno con/sull’altro, come ho sostenuto nelle pagine precedenti, rispondono tuttavia a una logica che discende da ragioni assai profonde e complesse. 

Infatti, è proprio degli ultimi vent’anni una serie di grandi cambiamenti all’interno dei processi di conoscenza e delle principali aree del sapere, siano esse variamente distinguibili in scienze sociali, umane, naturali o esatte; come noto la discussione otto-novecentesca sulla classificazione delle scienze è stata in larga parte superata da una visione sincretistica, dialogica, di “traduzione” tra un ambito e l’altro (per riprendere le riflessioni di Yehuda Elkana[25]), e anche di pura e semplice apertura di confini. Questi mutamenti sono stati diversamente analizzati e denominati dagli studiosi.[26]

Per semplificare fenomeni assai complessi che richiederebbero analisi ben più particolareggiate di quanto io non riesca a fare qui, riprenderei l’esempio dell’Enciclopedia Einaudi cui si accennava nella prima parte di questo articolo, e ben nota a gran parte del corpo insegnante. La struttura formale di quest’opera è assai interessante: non più un albero con rami che vanno verso l’alto gerarchicamente costituiti, bensì un disegno, denominato “grafo”, dove tutte le voci, seppure incluse all’interno di alcune grandi spartizioni, sono però collegate l’una alle altre, e fluttuano in questo spazio; sono in movimento e non gerarchicamente sistemate.

Negli anni ’70-’80, attraverso progetti innovativi come quello dell’Enciclopedia Einaudi, si entra in un clima assai diverso da quello del periodo precedente: non si tratta più di introdurre nuove nozioni, di ridefinire o aggiornare le antiche aree disciplinari sostituendole con altre, bensì di procedere a operazioni di rinnovamento degli ambiti compresi da un concetto o da una parola. Si afferma inoltre la consapevolezza del carattere transeunte e transitorio degli strumenti con cui si lavora intellettualmente; cominciano ad avere ampia circolazione parole come ‘rete’ e ‘complessità’; infine, l’onnipresenza del termine ‘sociale’ si attutisce per fare spazio al nuovo astro sorgente - “culturale” – che lo spodesterà nel volgere di poco tempo. Le enciclopedie e dizionari di nuova generazione, come anche iniziative editoriali di divulgazione, collane intitolate “bussole” o “farsi un’idea”, riviste e anche supplementi di quotidiani come “Diario” su “Repubblica”, sempre più spesso si richiamano al concetto della “parola-chiave”. La rivista “Problemi del socialismo”, fondata negli anni ’50 da Lelio Basso, cambierà veste ed editore e uscirà dal 1993 in poi con il nome appunto di “Parolechiave”.

Queste iniziative sono ormai caratterizzate da una impostazione dove l’esattezza e rigore delle definizioni si accompagnano a una diffusa consapevolezza di una loro intrinseca natura instabile e mutante, che le destina ad esistere in una permanente condizione transeunte. Ormai, alle richieste di un tempo di costruire alleanze tra discipline, di abbattere steccati, si sostituiscono obiettivi più realistici, basati sulla constatazione di una avvenuta perdita di forza, unicità, compattezza, impenetrabilità del linguaggio e degli strumenti della conoscenza.

 

5. Biopolitica 

Mentre sul piano più squisitamente economico-sociale, termini come ibridazione, flessibilità, globalizzazione, e anche neologismi come “meticciato”, trascinati dai massicci flussi e migratori, prendevano quota, a livello filosofico – sulla spinta di Foucault - si imponevano “vita” e “politica”, variamente combinate insieme al greco “bios“. “Biopolitica” è un termine che sarebbe prevalso dalla fine degli anni ’90, anticipato dal corso di Foucault del 1976 al College de France intitolato Bisogna difendere la società, e dal capitolo conclusivo de La volontà di sapere, sempre del 1976.[27] In esso Foucault sostiene che a un potere di vita e di morte prevalente fino al XVIII° secolo, si viene a sostituire nel corso del secolo XIX, un potere sulla vita:

“Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due forme principali a partire dal XVII° secolo… Uno dei poli… è stato centrato sul corpo in quanto macchina: il potenziamento delle sue attitudini,.. la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci ed economici… Il secondo, verso la metà del XVIII° secolo, è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farle variare…”

…La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita.” [28]

           E poche pagine più avanti commenta: “Su questo sfondo si può capire l’importanza assunta dal sesso come oggetto di scontro politico: esso è l’elemento di connessioni di due assi lungo i quali si è sviluppata tutta la tecnologia politica della vita. Da un lato partecipa delle discipline del corpo: dressage, intensificazione e distribuzione delle forze, adattamento ed economia delle energie. Dall’altro partecipa della regolazione delle popolazioni attraverso tutti gli effetti globali che induce.”

… “Il sesso è contemporaneamente accesso alla vita del corpo ed alla vita della specie”.[29]

Si tratta di osservazioni di cui è difficile sopravvalutare l’importanza; ciò di cui 30 anni fa Foucault scriveva, costituiscono i temi cruciali su cui ci interroghiamo incessantemente da anni e la loro ossessiva pervasività è sotto gli occhi di tutti. Il lucido insegnamento di Foucault è alla base di lavori dell’ultimo decennio che ne riprendono e sviluppano i punti essenziali, come ben illustrato da alcuni importanti libri degli ultimi anni - La nuda vita di Agamben,[30] Bios di Roberto Esposito,[31] Vite precarie di Judith Butler;[32] e anche, da un altro versante, per tornare agli spunti sopra discussi, Nascondere l’umanità di Martha Nussbaum.[33]

Da queste brevi considerazioni è forse possibile ricavare qualche indicazione di carattere didattico, utili sia per chi lavora nelle scuole che all’università. Telegraficamente mi limito a indicare due punti principali. 

Un primo aspetto è quello riguardante i contenuti di ciò che si insegna, la scelta dell’argomento, che comporta la necessità di costruire una base contestuale significativa. Occorre, in poche parole, far capire che le discipline sono utili ma non devono diventare una prigione; al contrario, devono essere come delle case aperte e ospitali, continuamente visitate da amici ed estranei. Questo significa oscillare senza sosta, da un lato per fornire alcune indicazioni di base squisitamente disciplinari, dall’altro per sottolineare il fatto che esse sono costruite con prestiti, alleanze, sconfinamenti, travestimenti, ecc. Lo scopo è quello di mostrare che gli oggetti di cui ci occupiamo, e così anche la scatola disciplinare entro cui si trovano rinchiusi, hanno alcune caratteristiche storiche e strutturali che li tengono in piedi, ma si trovano a essere continuamente in uno stato di trasformazione e di mutamento.[34] Lo sforzo di chi insegna è teso ad ampliare le capacità di osservazione degli studenti, a spostarli da dove pensano di trovarsi; bisogna far vedere come appaiono alcuni concetti, alcuni episodi, alcuni fenomeni, da punti di vista teorici e metodologici meno scontati. Da una parte, quindi, sia come studenti che come insegnanti, ci troviamo tra le mani una strumentazione concettuale “nomadica”, sottoposta a variazioni e svolte, che d’altra parte è anche qualcosa di assai dinamico. Per non affogarli nell’incertezza e nella frammentazione, occorre fornire alcuni punti di appoggio storico e teorico, mostrarne l’utilizzazione e alcuni possibili effetti.

L’altro aspetto, collegato al primo, riguarda una pratica che da tempo è diffusa nelle scuole, ma che assai difficilmente si riesce a introdurre nella didattica delle università italiane: la compresenza tra insegnanti di materie, orientamenti, formazione diverse; l’insegnamento di seminari e di corsi a più voci. Si tratta di una esperienza assai stimolante ma lontanissima dalle tradizioni nostrane, in particolare poco amata dai docenti delle generazioni più vecchie. Eppure, soltanto attraverso un confronto, dialogo, scambio, tra colleghi/e si riesce a mostrare concretamente quanto permeabili siano i confini tra e delle discipline, e come possano essere percorsi in direzioni diverse; quanto, in fin dei conti, il vero obiettivo della conoscenza (e quindi di come si impara e si insegna) sia quello di costruire qualcosa che ancora non si sa bene a chi e a quale luogo appartiene, e di cui non bisogna pretendere il possesso tramite un etichettamento e una chiusura, ma offrire liberamente come un bene da condividere. Anzi, che solo se condiviso, può considerarsi efficace e utile.[35]

 

 


 

 

[1] Questo articolo è composto di due parti. La prima riprende, con qualche cambiamento e aggiunta, un breve contributo del 2003 intitolato Orizzonti mutati nelle scienze sociali, inserito come paragrafo iniziale di un documento a più firme del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali (disponibile in rete nel sito www.consiglioitalianoscienzesociali.it). La seconda parte ne costituisce un ampliamento, e sviluppa un intervento fatto al convegno dei Licei delle Scienze Sociali, svoltosi a Sezze nel marzo 2006.

[2] AA.VV. Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, Torino, Einaudi, 1977; AA.VV. L'insegnamento delle scienze sociali: dove, come, perché, Torino, Loescher, 1978. Autori e autrice del primo erano: Guido Baglioni, Valerio Castronovo, Alessandro Cavalli, Raffaele Laporta, Clotilde Pontecorvo, Stefano Rodotà, Pietro Rossi, Benedetto Sajeva, Paolo Sylos Labini; del secondo: Luigi Firpo, Pietro Rossi, Alessandro Giordano, Marino Raicich, Ethel Serravalle Porzio, Michele Di Giesi, Enzo Bartocci, Savino Melillo.

[3] Su questo rinvio al mio contributo, Che significato hanno gli studi culturali in Italia?, consultabile in rete insieme a molti altri materiali, cfr. www.culturalstudies.it.

[4] Pierre Bourdieu, La misére du monde, Paris, Seuil, 1993.

[5] Il primo è stato pubblicato in italiano dall’editore il Mulino, gli altri due da Laterza.

[6] Roma, Meltemi, 2001.

[7] Bologna, il Mulino, 1997.

[8] Torino, Bollati Boringhieri, 1995.

[9] Milano, Cortina, 2000.

[10] Bologna, il Mulino, 2002.

[11] Cfr. Rosi Braidotti, Nomadic Subjects, New York, Columbia University Press, 1994. Il plurale è nell’edizione originale in inglese; la versione ridotta italiana singolarizza il titolo, Soggetto nomade, Roma, Donzelli, 1995.

[12] Milano, Feltrinelli, 1996.

[13] Cfr. Paola Di Cori, Tante storie diverse e alcuni obiettivi comuni, "Italia contemporanea", settembre 2000.

[14] Cfr. I saggi raccolti nei due volumi a cura di Clotilde Pontecorvo, Concetti e conoscenza, Torino, Loescher, 1983, e in particolare il suo saggio Concettualizzazione e insegnamento, ivi, pp. 262-354, e Storia e processi di conoscenza, Torino, Loescher, 1983, il saggio di Hilda Girardet, Un curricolo di storia come costruzione di reti concettuali, ivi, pp.269-316.

[15] Cfr. AA.VV., Crisi della ragione, a cura di Aldo Gargani, Torino, Einaudi, 1979.

[16] Cfr. Clifford Geertz, Blurred genres. The Refiguration of Social Thought, in "American Scholar", n.2, Spring 1980, ripubblicato in ID. Local Knowledge, New York, Basic Books, 1983, pp. 19-35.

[17] La traduzione italiana è stata pubblicata l'anno successivo dall'editore di Firenze, Hopefulmonster, 1987.

[18] Cfr. Joan W.Scott, Il "genere". Un'utile categoria per l'analisi storica, in Altre storie, a cura di Paola Di Cori, Bologna, Clueb, 1986, pp. 307-348. Molti dei temi qui accennati sono affrontati nella raccolta a cura di Joan W.Scott e Debra Keates, School of Thought. Twenty-five years of interpretive social science, Princeton, Princeton University Press, 2001, che include contributi – tra gli altri – di Geertz, Butler, Skinner, Sewell, Elshtein, ecc.

[19] Un buon esempio di questa svolta, alla fine degli anni ’80, è costituito dalla raccolta a cura di Lynn Hunt, The New Cultural History, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1989; e Victoria E. Bonnell e Lynn Hunt (a cura di), Beyond the Cultural Turn, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1999. Per alcuni riferimenti relativi all’Italia cfr. il sito www.culturalstudies.it; v. anche Christina Lutter, Markus Reisenleitner, Cultural Studies. Un’introduzione, Milano, Bruno Mondatori, 2004. V. anche Marco Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004.

[20] Su questi aspetti rinvio a Paola Di Cori, Storiografie implicite. La storia a scuola: tra senso comune e sperimentazione, in Discorso e apprendimento, a cura di Clotilde Pontecorvo, Roma, Carocci, pp. 197-213.

[21] Chicago, University of Chicago Press.

[22] Toronto, University of Toronto Press.

[23] I rischi sono infatti assai alti, come dimostrano le vicende delle aree di cui mi occupo da molti anni - gli studi di genere e gli studi culturali. Se si volesse capire quale avvenire possano avere questi studi in Italia, rispetto alle loro terre d’origine – rispettivamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra - basti pensare che nel nostro paese riescono a sopravvivere e magari anche a svilupparsi, ottenendo qualche interessante risultato solo ed esclusivamente se riescono a essere ‘inglobati’ e inseriti all’interno di qualche disciplina o specialità disciplinare. E’ così forte nel nostro paese la resistenza opposta alle mésalliances tra le discipline - una opposizione che si carica di molti significati e vantaggi 'pratici' (conferme professionali, promozioni, carriere, influenza in campo editoriale) - che soltanto acquistando etichette in cui appaiono ‘disciplinate’, le aree ibride ma soprattutto quelle di nuova o recente provenienza, riescono a esistere.

[24] Cfr. Immanuel Wallerstein, Anthropology, Sociology and Other Dubious Disciplines, in "Current Anthropology", n.4, agosto-ottobre 2003, pp.453-466. Wallerstein, autore nel 1991 di un testo importante sulla definizione delle scienze sociali - Unthinking Social Sciences: the limits of nineteenth-ecentury paradigms, Cambridge, Polity Press, 1991 - è stato a capo della commissione internazionale Gulbenkian per la ristrutturazione delle scienze sociali, che qualche anno fa ha pubblicato un rapporto intitolato Open the Social Science, Stanford, Stanford University Press, 1995. Il titolo inglese, mantenuto anche nelle traduzione in spagnolo e in parte in quella francese, è stato in italiano reso con lo stupefacente Le scienze sociali: come sbarazzarcene; i limiti dei paradigmi ottocenteschi, Milano, il Saggiatore, 1995. 

[25] Cfr. Yehuda Elkana, Antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza, 1989.

[26] Un convegno organizzato presso l’Accademia Nazionale dei Lincei nei giorni 26-28 ottobre 2006 riflette in maniera evidente quanto sostenuto in queste pagine. Con il titolo di “Le scienze umane in Italia” sono previste tre giornate, con contributi nelle seguenti aree disciplinari: filosofia, storia, antropologia, psicologia, letteratura, filologia, semiotica, linguistica, economia, sociologia, demografia, diritto, scienza politica. In corsivo appaiono quelle che in tutte le università, italiane e non, vengono considerate scienze sociali, le quali vengono qui inglobate con disinvoltura tra quelle umane. Sono scomparse anche le scaramucce para-clericali che avevano portato alcuni rappresentanti del ministero Moratti ai primi anni del millennio, a preferire ‘umano’ rispetto a ‘sociale’ sulla base di squisiti criteri di preferenza religiosa, privi di qualsiasi base scientifica o di richiami a una tradizione accademica consolidata. Occorre inoltre commentare, a proposito di questa iniziativa dei Lincei, che tra i 30 professori invitati a parlare (ai quali occorre aggiungere l’attuale ministro dell’Università e della Ricerca, Fabio Mussi), non è compresa nessuna donna, né – con l’eccezione del ministro - un uomo al disotto dei 60 anni! Quindi, non resta che constatare quanto l’aggettivo “umano” sia non solo storicamente mutevole e rivisitato variamente a seconda dei contesti spazio-temporali, ma come in Italia esso costituisca più che altro un sintomo negativo, specchio di arretratezza e non di democrazia o progresso sociale; in poche parole: l’ennesima conferma di quei caratteri patriarcali e gerontofilici che costituiscono il tratto dominante della stragrande maggioranza degli atenei nostrani.

[27] Cfr. Michel Foucault, “Bisogna difendere la società”, Milano, Feltrinelli, 1998; ID., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978.

[28] Michel Foucault, La volontà di sapere, cit., pag. 123.

[29] Ivi, pag. 129.

[30] Torino, Einaudi, 1996

[31] Torino, Einaudi, 2004.

[32] Roma, Meltemi, 2004.

[33] Roma, Carocci, 2004.

[34] Per ulteriori indicazioni didattiche sulle discipline rinvio a Paola Di Cori, Indisciplina e disordine. Insegnare in tempo di guerra, in AA.VV. Sconfinare .Differenze di genere e di culture nell’Europa di oggi, Urbino, edizioni Goliardiche, 2002, pp. 119-132.

[35] Una serie di contributi su questi e altri aspetti della didattica e del lavoro universitario, a partire da un testo di Michel de Certeau, Che cos’è un seminario?, sono raccolti in un fascicolo della rivista “Achab”, n.7, 2006, consultabile anche in rete all’indirizzo www.achabrivista.it

 

 

 

 

Il programma del convegno di Rovereto 2012 (Rete Passaggi-SISUS)

 

clicca qui per scaricare il programma definitivo e dettagliato del convegno di Rovereto 2012.

rovereto 2012 

 

L’Istituto Filzi di Rovereto in collaborazione con Passaggi (Rete delle scuole delle scienze umane), e con l’Associazione SISUS (Società Italiana di Scienze Umane e Sociali) organizza il IX° Convegno Nazionale:

IL LICEO DELLE SCIENZE UMANE:
UN NUOVO DIALOGO TRA UMANISTI E SCIENZIATI
SAPERI E LINGUAGGI NELLE PRATICHE EDUCATIVE

 

Il convegno ha l’ambizioso obiettivo di mettere in dialogo umanisti e scienziati in relazione ai saperi e ai linguaggi in educazione partendo da una idea di scuola che si interroga sulle nuove frontiere dell’apprendimento. Il sapere, come afferma E. Morin in Il “nuovo pensiero per il terzo millennio”, deve essere una conoscenza capace di superare l’isolamento e la separazione che caratterizza molti dei saperi della nostra epoca, colpiti da un eccesso di specializzazione. Si presenta la necessità di riscoprire le premesse implicite in ogni conoscenza, le idee generali che fanno da cornice.

Fortunatamente il movimento di cambiamento in questa direzione, come afferma ancora Morin, sembra avviato: assistiamo al nascere di scienze polidisciplinari; all’arretrare delle concezioni riduzioniste; alla maggiore consapevolezza della complessità del reale. Una delle conseguenze possibili riguarda il bisogno di recuperare la complessità del sapere, ad esempio con una maggiore integrazione tra cultura umanistica e scientifica. Ma soprattutto il bisogno di educare gli educatori, educarli all’amore e alla passione per la loro professione (in Nuovo pensiero per il terzo millennio).

L’obiettivo è di dare agli studenti le basi per articolare, collegare e contestualizzare i saperi al fine di permettere loro di “sapersi situare” all’interno della società complessa. Per realizzare questo obiettivo docenti universitari e docenti di scuola superiore sono stati impegnati in una riflessione sul tema della terza cultura e la sua possibile traducibilità in termini pedagogico-didattici.

Il tema del convegno ha alimentato anche il dibattito fra i docenti di scienze umane impegnati, pur nella contraddittorietà delle scelte di politica scolastica a cercare nuove strategie e nuove modalità didattiche tese sia a trovare un nuovo dialogo tra i saperi umanistici e i saperi scientifici sia a cercare nuove conoscenze e competenze che facciano diminuire la distanza, spesso ancora esistente, fra le esigenze di una società in continua evoluzione culturale ed eonomico-tecnologico-scientifica e il mondo della scuola che a fatica e molto lentamente si adegua ai cambiamenti e alle trasformazioni.

Sicuramente questo convegno, che in realtà è un vero e proprio laboratorio culturale, è una grande opportunità non solo per il territorio trentino in quanto la presenza di autorevoli studiosi e il confronto di buone pratiche che si attuano su tutto il territorio nazionale avrà ricadute positive per la comunità scientifica.
Credo sia importante in questa fase storica, di ridefinizione di paradigmi culturali, stimolare i nostri insegnanti a riprendere entusiasmo per il loro compito che non può esaurirsi nel fornire agli studenti strumenti culturali per navigare nella complessità o di sommare conoscenze specialistiche o iper-specialistiche. La sfida del pensiero oggi, che gli insegnanti devono saper cogliere, è quello di organizzare, di ibridare le conoscenze e non di sommarle. Per dirla ancora con Morin: “Questo sapere che abbraccia deve far rinascere una cultura che non sia puramente e semplicemente la copia della vecchia, ma che rappresenti l’integrazione di questa cultura all’interno di una connessione tra la cultura umanistica e quella proveniente dalle scienze”.

Sicuramente l’obiettivo del convegno è ambizioso ma siamo certi che non si esaurisce tutto in questi tre giorni ma è solo il punto di partenza per la costruzione di nuovi paradigmi culturali.

Aldo Muciaccia
coordinatore comitato scientifico

Scienze umano-sociali e scienze naturali

 

di Angelo Morales

 

“L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché è in sé e
 per sé per un’altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di
 riconosciuto…Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza;
essa è uscita fuori di sé. Ciò ha un duplice significato: in primo
luogo
l’autocoscienza ha smarrito se stessa perché ritrova se
stessa come una essenza diversa; in secondo luogo essa così ha
 superato l’altro, perché non vede anche l’altro come essenza, ma
 nell’altro vede se stessa. Essa deve togliere questo suo esser-altro”.

GWF Hegel, Fenomenologia dello Spirito, 1806

 

 Un corso di studi di Scienze umane e sociali dovrebbe partire da un’idea dell’uomo e della società, o quantomeno dal dibattito in corso sull’una e sull’altra, oggi del tutto aperto e ricco di implicazioni inedite rispetto al passato. Non stupisce che di tale dibattito non si trovi traccia nei nuovi profili dei due indirizzi di Scienze Umane e dell’Opzione, dato che la loro frettolosa stesura semiclandestina rispondeva a criteri non proprio culturali ma molto più prosaici. Ciò che rende ancor più necessario avviare una discussione sul senso attuale dei nostri indirizzi di studio e delle nostre discipline. Riprendendo alcune tematiche indicate in un breve contributo di qualche mese addietro mi propongono di esporre due tesi (non dico argomentare in modo adeguato, perché farlo richiederebbe molto più spazio e qualche competenza in più) su cui credo sarebbe molto proficua una riflessione comune.

 

Scienze umane o Scienze sociali?

   Ha ancora senso la distinzione tra scienze umane e scienze sociali, e cosa la giustifica? La scelta di azzerare l’indirizzo di Scienze Sociali sostituendolo con le Scienze Umane (di cui l’Opzione economico sociale costituisce una sorta di diramazione, o per meglio di dire di parente povero) non ha avuto alcuna giustificazione esplicita, almeno che io sappia, a meno che nella “cabina di regia” vi siano stati avvincenti dibattiti teorici sul tema. La mia ipotesi è che se vogliamo provare a ragionare attribuendo a tale scelta qualche dignità teorica (mettendo cioè da parte le logiche di altro genere che in ultima analisi hanno avuto la meglio) sia utile partire dalla considerazione che dietro la distinzione tra umano e sociale si cela una falsa contrapposizione tra individuo e società. In questa concezione l’individuo esiste prima della società, la quale sarebbe data dalla semplice aggregazione di più individui autonomi e di per sé indipendenti. Le scienze umane si occupano dunque dell’individuo pre-sociale così ipostatizzato, le scienze sociali delle sue relazioni con gli altri, e in questo senso il loro ruolo viene opportunamente ridimensionato. Che dietro questa idea ci stia qualche desueta forma di spiritualismo o si vada a braccetto con alcuni esiti solipsisti del moderno cognitivismo, la sostanza non cambia; anzi è possibile che si sia realizzato un mix di entrambi, ed è perciò che la“metafisica influente” che si intravede dietro il riordino assomiglia ad un indigesto connubio di integralismo e tecnocrazia.

   Il problema è che, da qualunque parte la si osservi, la ricerca attuale porta verso esiti radicalmente diversi. Proviamo a partire dall’Antropologia, che ovviamente si è a lungo occupata della “natura umana”.  In questo caso la nostra storia ha inizio in un lontano passato, con il processo di ominizzazione, così descritto da H. Popitz: “I singoli passi di questa evoluzione organica sono riconducibili all’acquisizione della stazione eretta e al successivo dispiegamento delle possibilità che essa permette: il disimpegno della mano…il ritirarsi della mandibola, l’ampliarsi della fronte, l’accrescersi della massa cerebrale e infine la costituzione della sua struttura”. Si realizza in tal modo un circuito virtuoso tra occhio, mano e cervello, che va visto “come un agente della filogenesi umana, come elemento dinamico della produzione dell’essere umano” (Verso una società artificiale, Editori Riuniti, 1996). E’ evidente che questo processo ha a che fare con la specie nel suo complesso: è la specie che si umanizza, ed i singoli individui ne condividono il destino.

   L’indagine sulla natura umana è stata recentemente stimolata ed arricchita dalla riscoperta di alcuni autori considerati i fondatori dell’antropologia filosofica, come Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen (per una visione di insieme cfr. M. T. Pansera, Antropologia filosofica, B. Mondadori, 2001). Di quest’ultimo è stata recentemente ripubblicata in Italia l’opera più significativa, del 1940, (L’uomo.La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, 2010), nella quale espone la tesi dell’uomo come essere carente, biologicamente inadatto alla sopravvivenza, che riesce a compensare questa mancanza attraverso la cultura, che per lui si configura come una “seconda natura”. Mentre le altre specie viventi sono caratterizzate da una ricca dotazione di istinti, che consente loro di adattarsi perfettamente all’ambiente, l’uomo è povero di istinti ed il suo ambiente è il mondo. Questa debolezza naturale dell’uomo si rovescia però in un fattore determinante della sua evoluzione, che lo mette in condizione di adattare ogni ambiente ai suoi bisogni, attraverso l’uso combinato della mente e delle mani. L’uomo, dunque, è un essere “naturalmente culturale”: la cultura non è qualcosa che si aggiunge “dopo” (quando?), alla sua formazione, ma caratterizza la specie umana sin dall’inizio. Un ruolo decisivo in questo processo è dato dalla neotenia, così descritta da M. Mazzeo : “L’essere umano è neotenico perché l’infanzia assume per noi un carattere cronico e permanente, grazie al rallentamento del processo di invecchiamento e di maturazione dell’organismo…alla nascita il cervello umano è pari al 28% della grandezza che raggiungerà in età adulta contro il 70% dei gibboni…e la dipendenza dalle figure genitoriali si protrae per diversi anni”. E, citando l’antropologo A. Montagu, prosegue: “…è del tutto erronea l’idea secondo la quale la vita dell’individuo comincerebbe con la nascita. La nascita non è niente di più che la fine del periodo di gestazione; rappresenta semplicemente il ponte tra la gestazione intrauterina e quella extrauterina” (M. Mazzeo, Per un’antropologia dell’ambivalenza, in “Forme di vita”, n.6, 2007). Se passiamo dunque dalla filogenesi all’ontogenesi, possiamo riscontrare che la costituzione della persona umana richiede un lungo periodo di formazione anche oltre la nascita. Ma, se ciò è vero, e mi sembra difficile che oggi lo si possa contestare, anche il processo di formazione del singolo individuo è socialmente condizionato. La socializzazione non interviene quindi solo attraverso il processo educativo, quando ormai, per così dire, la biologia ha fatto la sua parte; essa diviene parte costitutiva della formazione della mente, e dunque della identità di ciascuno, a partire dalla concreta realizzazione dei circuiti neuronali. Scrive Gerald M. Edelman: “nasciamo con un numero di geni insufficiente per specificare la complessità sinaptica di cervelli superiori come il nostro. Com’è ovvio, il fatto che abbiamo un cervello umano e non un cervello di scimpanzé dipende invece dalle nostre reti genetiche. Ma queste, come le reti cerebrali, sono enormemente variabili poiché le loro diverse forme di espressione dipendono dal contesto ambientale e dall’esperienza personale” (G.M.Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, R.Cortina, 2007, p 18).

   Una caratteristica essenziale dell’essere umano è il linguaggio, il cui ruolo nel processo di formazione, sia filogenetica che ontogenetica, è determinante. Riprendendo il concetto aristotelico di natura come manifestazione delle specifiche potenzialità di una specie vivente, Felice Cimatti afferma che in realtà la specie umana non è del tutto carente di istinti, perché “un istinto il nostro corpo ce l’ha, per quanto particolarissimo”, ed è “l’istinto del linguaggio. Ma, diversamente da quanto accade con gli altri istinti, che riducono lo spettro delle possibilità a vantaggio di un solo ambiente, il linguaggio umano agisce in senso opposto…è una macchina che genera ipotesi, ossia scenari possibili” (F. Cimatti, Il senso della mente, Bollati Boringhieri, 2004).

   L’analisi della struttura del linguaggio permette di guardare alla relazione tra umano e sociale da una prospettiva illuminante. Già nel 1934 Vygotskij scriveva: “Lo sviluppo del pensiero è, per Piaget, la storia della graduale socializzazione di stati mentali autistici, personali e profondamente intimi. Persino il linguaggio sociale viene considerato come una forma di linguaggio che non precede ma segue il linguaggio egocentrico. L’ipotesi che noi proponiamo capovolge questo corso …la funzione primaria del linguaggio, sia nei bambini che negli adulti, è la comunicazione, il contatto sociale. Il primissimo linguaggio del bambino è quindi essenzialmente sociale…Nella nostra concezione, la vera direzione dello sviluppo del pensiero non è dall’individuale al socializzato, ma dal sociale all’individuale” (Pensiero e linguaggio, ed. it. Giunti Barbera, 1984, pp.37-38). E ancora: “ Ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima fra le persone, come categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come categoria intrapsichica” (cit. da F. Cimatti in “Forme di vita”, n.5/2006). Intervenendo su questi problemi 25 anni dopo, Piaget sosterrà a sua volta: “…su alcuni punti mi trovo d’accordo col Vygotskij più di quanto avrei potuto esserlo nel 1934…egli avanzò una nuova ipotesi: che il linguaggio egocentrico sia il punto di partenza per lo sviluppo del linguaggio interiore…e che questo linguaggio interiorizzato possa servire sia ai fini autistici che al pensiero logico. Io sono completamente d’accordo con queste ipotesi…In breve, sono d’accordo col Vygotskij quando conclude che la funzione iniziale del linguaggio deve essere quella della comunicazione globale e che più tardi il linguaggio diventa differenziato in linguaggio egocentrico e linguaggio comunicativo propriamente detto”(Pensiero e linguaggio, cit, pp.242-43). Non è qui essenziale determinare se la tardiva lettura di Vygotskij abbia fatto cambiare in modo significativo il modo in cui Piaget intendeva la relazione tra pensiero e linguaggio, quanto il fatto che la posizione di Vygotskij (e Lurija) ha, in modo carsico, influenzato profondamente la ricerca successiva, nonostante il periodico prevalere di posizioni teoriche opposte, per ultima quella cognitivista.

   La “rivoluzione cognitiva”, come è stata definita da H. Gardner, ha avuto un ruolo che è difficile sottovalutare nel panorama scientifico contemporaneo. Coinvolgendo molteplici discipline (oltre alla psicologia, la linguistica, l’antropologia, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la filosofia della mente), può essere considerata come un vero e proprio mutamento di paradigma, che ha accompagnato la rivoluzione informatica, che a sua volta ha modificato profondamente il mondo industrializzato. Se, a fronte di tanti meriti, una responsabilità può esserle riconosciuta, è quella di avere riproposto in termini quasi insolubili l’antica contrapposizione tra corpo, mente e mondo, di cartesiana memoria.  Addentrarsi nel multiforme panorama delle teorie della mente in vario modo riconducibili al cognitivismo non è qui ipotizzabile. Per quanto schematico, non credo sia tuttavia fuorviante riferirle ad un denominatore comune: la descrizione dell’attività mentale in termini di rappresentazioni formali e di regole per elaborarle. Da qui l’analogia tra la mente ed il computer e l’idea di una implementazione della mente diversa dal cervello. Ma, mentre da un lato si manifestano significativi ripensamenti interni allo stesso cognitivismo: “l’innatismo computazionale è senza ombra di dubbio la migliore teoria della mente cognitiva che sia mai stata concepita finora…Ciò malgrado, è assai plausibile sospettare che questa teoria sia, in larga misura, falsa” (Jerry A. Fodor, La mente non funziona così, Laterza, 2001), sino ad oggi qualunque tentativo di realizzare delle macchine pensanti si è scontrato con le enormi difficoltà di dare ad un robot, oltre alle funzioni computazionali, anche quelle di un corpo che sente ed ha un ruolo insostituibile, oltre che nel determinare emozioni, sentimenti e desideri, anche nella formulazione dei pensieri. Pare cioè che non sia proprio possibile realizzare una mente umana disincarnata. (Vedi ad es. le ricerche di un esperto di robotica come Domenico Parisi: D. Parisi, Mente. I nuovi modelli della Vita Artificiale, Il Mulino, 1999; Id., Una nuova mente, Codice edizioni, 2006; cfr. anche Edelman, Seconda natura, cit.).  

   Buona parte della ricchissima ricerca teorica di Husserl ha avuto l’obiettivo di cogliere il nesso necessario tra l’io, l’altro e il mondo nella costituzione della soggettività. Anticipando con straordinaria acutezza tante ricerche contemporanee, il fondatore della fenomenologia giunge alla convinzione che “la ragione non risiede nella coscienza del singolo, non è qualcosa che ogni individuo possiede in pari misura. Essa è, al contrario, qualcosa che si costituisce intersoggettivamente. Ridotto al solus ipse io non potrei accedere a quel concetto di ragione che è il correlato del vero essere…Il vero essere si costituisce dunque in atti soggettivi, che però non sono quelli del singolo soggetto, bensì gli atti che fanno capo a una comunità intersoggettiva…La ragione non è, dunque, uno spirito del mondo che aleggia sopra i singoli soggetti, ma qualcosa che accade all’intersezione e nell’interazione tra i singoli soggetti e, proprio per questo, però, si radica in ogni singolo soggetto in quanto questi si interroga sulla legittimità dei suoi atti, aprendosi, nello stesso tempo, alla correzione intersoggettiva” (V. Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose, Rubbettino, 2007).

   Oggi viene sottolineata da più parti la sorprendente corrispondenza tra gli esiti della ricerca fenomenologica e quelli delle neuroscienze (vedi ad es. il libro curato da M. Cappuccio: AAVV, Neurofenomenologia, B. Mondadori, 2006). Non a caso dalla fenomenologia sono influenzati anche alcuni filosofi della mente fortemente critici del cognitivismo, come H.L. Dreyfus ed Andy Clark. Del primo scriveva Sergio Moravia: “A una possibile domanda sul ‘dove’ avvengono gli eventi mentali la risposta più appropriata è per Dreyfus che ‘avvengono in un mondo condiviso [con altri] nel quale siamo circondati da cose e da individui esterni a noi, e non nei nostri cervelli né nelle nostre menti’. E alla possibile domanda su ‘chi’ sia l’agente, il soggetto reale degli atti mentali, la risposta più appropriata pare essere la persona: non certo la mente” (S. Moravia, L’enigma della mente, Laterza, 1986; ma di Dreyfus vedi Che cosa non possono fare i computer, Armando, 1988). Riguardo ad Andy Clark, Daniel Dennet sintetizza così la sua idea: “…le menti sono composte di attrezzi per pensare che noi non solo otteniamo dal mondo sociale più ampio, ma che prevalentemente vivono nel mondo, piuttosto che ingombrare il nostro cervello”. Direi, con buona pace del solipsimo, da qualunque parte esso provenga. (di Andy Clark vedi Dare corpo alla mente, McGraw-Hill, 1999; ma il titolo originale, ben più significativo è: Being There. Putting Brain, Body and World Together Again).

   Alla metà degli anni novanta Giacomo Rizzolatti ed il suo gruppo di lavoro presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma, scoprono l’esistenza, nella corteccia ventrale premotoria della scimmia ed in seguito in altre aree del cervello, dei neuroni-specchio, che vengono attivati non solo quando l’animale compie un’azione, ma anche quando osserva un altro che la compie. Successivamente, lo stesso gruppo, e ricercatori di altre università, confermano l’esistenza dei neuroni-specchio anche nell’uomo. Qual è l’importanza di questa scoperta in relazione al nostro argomento, cioè alla relazione tra umano e sociale? “Essi attestano un livello-base delle nostre relazioni interpersonali, costituito da un meccanismo di ‘risonanza immediata’ non cognitivistico tra me e gli altri…I neuroni –specchio sono una specie di sapere vissuto, conseguente alla capacità di agire e automaticamente funzionante come canone di comprensione degli altri. In questo senso, essi forniscono la base neurofisiologica dell’originaria situazione d’interdipendenza e relazionalità tra gli esseri umani, indipendente da operazioni cognitive” (L. Boella, L’empatia nasce nel cervello?, in AAVV, Neurofenomenologia, cit.).  Quindi, la relazione dell’uomo con i suoi simili è assicurata da una “intersoggettività” originaria, che precede la costituzione della mente individuale. Il “noi” è presente prima ancora che si possa parlare di un “io” autocosciente; i neuroni-mirror costituiscono pertanto il fondamento biologico della socialità della mente (vedi tra gli altri V. Gallese, Le basi cerebrali dell’intersoggettività, in “Forme di vita”, n.4/2005). Da tutte queste considerazioni mi pare emerga con sufficiente chiarezza come una netta distinzione tra umano e sociale non sia sostenibile, perché non esiste un umano pre-sociale. L’essere umano diventa tale, filogeneticamente ed ontogeneticamente condividendo con i propri simili tutti gli elementi costitutivi del suo essere uomo. Riproporre dunque ancora oggi la distinzione tra scienze umane e scienze sociali, non tiene alcun conto degli esiti di un intenso lavoro interdisciplinare che dovrebbe indurre a riformulare radicalmente alcuni elementi di base dell’attività formativa.

 

Scienze naturali e scienze umano-sociali

   Il dibattito sulla relazione, o sulla contrapposizione, tra le scienze umane e quelle naturali, oggi può essere affrontato con maggiore consapevolezza critica rispetto al passato a partire da alcune premesse: 

  1. La crisi dell’epistemologia contemporanea ha di fatto dissolto la vecchia querelle sulle insufficienti garanzie di scientificità delle prime rispetto alle cosiddette “scienze esatte”. Direi che l’itinerario dell’ epistemologica contemporanea, da Popper a Lakatos, sino a Kuhn e Feyerabend, ha progressivamente evidenziato la strutturale incertezza della ricerca scientifica anche nell’ambito delle scienze naturali. Se prima le scienze umane scontavano una storica sudditanza, perché da un lato non erano in grado di adottare rigorosi metodi quantitativi di indagine, e dall’altro non potevano affidarsi sistematicamente ad una verifica sperimentale, oggi il carattere probabilistico delle stesse scienze della natura ha fatto scendere queste ultime dal piedistallo su cui erano state messe.
  2. Abbiamo ormai sufficienti riprove del fatto che la ricerca scientifica riesce ad ottenere risultati significativi se accetta la sfida di rompere le barriere disciplinari. Non occorre ricordare ai frequentatori del nostro sito il lavoro pluridecennale di Morin o quello testimoniato nel volume curato da G. Bocchi e M. Ceruti (AAVV, La sfida della complessità, B. Mondadori, 2007; la prima edizione è del 1983), e accennavo sopra all’esempio della cosiddetta “rivoluzione cognitiva” (vedi H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, 1988).

   L’ottica che vorrei proporre si riferisce però ad un’altra prospettiva di analisi, suggerita dal lavoro della rivista “Forme di vita” (pubblicata da DeriveApprodi) e da molteplici studi dei suoi collaboratori. Rendere conto di una attività di ricerca che spazia dalla linguistica alla filosofia della mente, alla psicologia, alla neurologia, all’antropologia, alla biologia e molto altro non è qui materialmente possibile. Mi limito pertanto ad indicare una delle tesi centrali di questo gruppo di lavoro, ben sintetizzata da Paolo Virno in alcune sue opere. Virno parte da una rilettura di Arnold Gehlen e dalla sua tesi dell’uomo come animale naturalmente culturale, cui ho già accennato. Data l’importanza di questo riferimento, mi sia consentita una lunga citazione, credo di per sé significativa, dello stesso autore.

 “Dal punto di vista morfologico -a differenza di tutti i mammiferi superiori- l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè carenze di sviluppo, e dunque in senso essenzialmente negativo…La tendenza dell’evoluzione naturale è a adattare forme di alta specializzazione ai loro rispettivi e ben determinati ambienti…L’uomo invece, dal punto di vista morfologico, si può dire non abbia specializzazioni…è in quanto essere naturale irrimediabilmente inadeguato. Egli è di una sprovvedutezza biologica unica, e si rivale di queste carenze soltanto grazie alla sua capacità di lavoro ovvero alle sue doti per l’azione, grazie cioè alle mani e all’intelligenza” (A. Gehlen, L’uomo, cit, pp.70-71).

   “L’apertura dell’uomo al mondo significa che egli difetta dell’adattamento animale a un particolare ambiente…La non specializzazione fisica dell’uomo, la sua carenza di strumenti organici, al pari della deficienza stupefacente di autentici istinti sono dunque in connessione reciproca, il cui rovescio concettuale è la scheleriana ‘apertura al mondo’ o, il che è lo stesso, il disancoraggio da un ambiente preciso…Già qui si prospetta un compito di grande rilievo fisico e vitale: l’uomo deve trovare a se stesso degli esoneri…cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita” (ib., pp.73-4).

   “In conseguenza del suo primitivismo organico, e della sua carenza strumentale, l’uomo è incapace di vivere in ambiti realmente naturali e originari. Deve dunque surrogare i mezzi di cui organicamente difetta, e lo fa trasformando attivamente il mondo in qualcosa di utile alla sua vita…L’insieme della natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile alla propria vita dicesi cultura, e il mondo della cultura è il mondo umano. Per lui non si dà possibilità di esistenza nella natura immodificata, non ‘addomesticata’, e non esiste ‘uomo allo stato di natura’ in senso stretto…La cultura è pertanto la (sua) ‘seconda natura’” (ib., p.75).

   Queste caratteristiche, presenti in modo inalterato in ogni essere umano “dal Cro-Magnon in poi”, costituiscono per Virno (come per Gehlen) l’”invariante biologico” dell’Homo sapiens, caratteri permanenti nonostante le profonde diversità culturali che si manifestano nelle diverse epoche storiche. Sbaglia dunque chi, come Geertz o Foucault, tende a dissolvere i caratteri naturali della specie umana contrapponendovi la sua radicale storicità. Geertz propone di superare la distinzione tra scienze naturali e scienze umane annullando le prime nelle seconde, dato che, a suo avviso, anche le scienze naturali hanno un fondamento socio-culturale; quindi, per eliminare la dicotomia tra biologia e cultura occorre umanizzare o socializzare la biologia (vedi C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, 1988, e Antropologia filosofica, Il Mulino, 2001; cfr. anche F. Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, 2007). Foucault, in uno storico dibattito con Chomsky del 1971, contrappone, al tentativo di quest’ultimo di indicare nel linguaggio una caratteristica invariante della natura umana, una immagine integralmente culturale dell’uomo. “In questa immagine, l’uomo è essenzialmente un produttore di rappresentazioni” ed “è facile vedere che questa immagine integralmente culturale dell’uomo portava con sé la sua indefinita plasticità, o, come a volte si è detto, la dissoluzione della natura umana” (D. Marconi, Il ritorno della natura umana, in N. Chomsy e M. Foucault, Della natura umana, DeriveApprodi, 2005).

   Ora, sostiene Virno, “d’accordo, l’invariante biologico non può mai essere separato dal mutevole decorso storico: ma non è, questo, un argomento sufficiente a negare l’invariante come tale, o a trascurare i modi in cui esso - restando invariante, si badi - erompe sulla superficie dei diversi sistemi sociali e produttivi”(P. Virno, Scienze sociali e natura umana, Rubbettino, 2002). E ancora: “L’invariante biologico che contraddistingue l’esistenza dell’animale umano è riconducibile al concetto filosofico di dynamis, potenza. Sotto il profilo temporale, potenza significa non-ora, inattualità, deficit di presenza…La potenzialità dell’Homo sapiens: a) è attestata dalla facoltà di linguaggio; b) fa tutt’uno con la non specializzazione istintuale; c) trae origine dalla neotenia; d) implica la mancanza di un ambiente univoco” (P. Virno, Diagrammi storico-naturali, in “Forme di vita”, n.1/2004).

   La storia sociale, caratterizzata appunto dalle incessanti conquiste della cultura, che compensano le nostre carenze strutturali, normalmente non fa apparire gli elementi invarianti della nostra costituzione, proprio perché la compensazione è ben realizzata. La prassi sociale e politica pone rimedio alla mancanza di un ambiente specifico dell’uomo costruendo pseudoambienti, “la non specializzazione si esplica come puntigliosa divisione del lavoro, ipertrofia di ruoli permanenti e di mansioni unilaterali…la cultura si impegna a stabilizzare l’’animale indefinito’, a lenire o velare il suo disambientamento, a ridurre la dynamis che lo caratterizza a un novero circoscritto di atti potenziali. La natura umana è tale da implicare assai spesso un contrasto tra le sue espressioni e le sue premesse” (P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, 2003).

“Questi caratteri salienti della nostra specie sono per lo più attutiti nelle società tradizionali, articolate come pseudoambienti in cui predomina la ripetitività, la stanzialità, una rigida divisione delle mansioni (dunque una specializzazione socialmente indotta dell’animale umano, di per sé non-specializzato). La cultura pone rimedio (provvisorio rimedio, e storicamente mutevole) alla carenza di un ambiente definito. Sicché, la ‘natura umana’ emerge sul piano storico-sociale solo in certe esperienze, o stati d’animo, relativamente eccezionali.Emerge nel corso di una crisi (economica, sociale, politica), quando cioè le abitudini pseudoambientali vanno in pezzi, gli automatismi fanno cilecca, torna a farsi sentire apertamente l’incertezza e l’indecisione” (P. Virno, Scienze sociali e “natura umana”, Rubbettino, 2003).

   Nella società contemporanea emergono però proprio quelle invarianti biologiche dell’essere umano che nelle epoche precedenti erano state occultate dal prevalere delle forme storiche dell’attività compensativa della cultura. Il postfordismo, che caratterizza l’epoca presente, attualizza e sfrutta ai propri fini proprio quelle caratteristiche naturali della specie umana che prima potevano emergere solo nei momenti di crisi. Non c’è qui lo spazio anche solo di accennare alla ormai vasta letteratura sull’argomento. Mi limito perciò a riportare una breve sintesi di R. Finelli sui caratteri del capitalismo contemporaneo:

   “Il postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il ‘corpo’ e comincia ad essere la ‘mente’. Quando cioè funzione fondamentale del processo produttivo per quanto concerne la forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che si tratti infatti di erogazione di energia lavorativa alla macchina informatica sia che si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta ‘qualità totale’, ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza-lavoro al capitale non è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di questi, la sua capacità di scelta, la sua intera complessità emozionale-intenzionale è ciò che infatti ora serve al capitale da quando l’automazione unita all’informatica espelle forza-lavoro manuale e richiede forza-lavoro mentale e da quando la filosofia dell’azienda tende a richiedere un lavoro cosiddetto riflessivo, capace cioè di assumere il proprio costante miglioramento a oggetto di se stesso. In particolare la macchina informatica richiede una forza-lavoro mentale particolarmente subalterna ed omogenea,essendo la sua caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano e di dar luogo così a una mente artificiale di cui quella umana diventa solo funzione e appendice” (R. Finelli, Alcune tesi su capitalismo, marxismo e “postmodernità”, in AAVV, Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’età telematica, Manifestolibri, 1998).

   A questi caratteri della società attuale fa riferimento Virno proseguendo la sua analisi:

   “Il capitalismo contemporaneo ha modificato alla radice il rapporto tra inalterabili prerogative filogenetiche e prassi storica. Le forme di vita oggi prevalenti non velano, ma ostentano senza remore i tratti differenziali della nostra specie. L’attuale organizzazione del lavoro non smorza il disorientamento e l’instabilità dell’animale umano, ma, tutt’al contrario, li porta al diapason e sistematicamente li valorizza. La potenzialità amorfa, ovvero la cronica persistenza di caratteri infantili, non balena minacciosamente nel corso di una crisi, ma pervade ogni piega della più trita routine. La società della comunicazione generalizzata, lungi dal paventarlo, mette addirittura a profitto l’’eccesso di semanticità non risolubile in significati determinati’, conferendo quindi il massimo risalto alla indeterminata facoltà di linguaggio” (P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit.).

   “La carenza di istinti specializzati e la penuria di un ambiente circostanziato, sempre uguali dal Cro-Magnon in poi, figurano esplicitamente, oggi, come ragguardevoli risorse economiche. Non è difficile constatare la plateale corrispondenza tra certi caratteri salienti della ‘natura umana’ e le categorie sociologiche che più si attagliano alla situazione attuale. La non specializzazione biologica dell’Homo sapiens non resta sullo sfondo, ma guadagna la massima appariscenza storica come universale flessibilità delle prestazioni lavorative. L’unico talento professionale che davvero conti nella produzione postfordista è l’abitudine a non contrarre durevoli abitudini, ossia la capacità di reagire tempestivamente all’inconsueto. Una competenza univoca, modulata in ogni dettaglio, costituisce ormai un autentico handicap per chi è costretto a vendere la propria forza-lavoro. E ancora: la neotenia, ossia l’infanzia cronica e il connesso bisogno di un addestramento continuativo, trapassa linearmente, senza mediazioni di sorta, nella regola sociale della formazione ininterrotta. Le carenze del ‘parto costitutivamente prematuro’ si convertono in virtù produttive” (P. Virno, Diagrammi storico-naturali, p.111).

   Possiamo ora tornare al nostro ragionamento iniziale. Schematizzando si possono individuare due tendenze nel dibattito culturale recente sulla relazione tra natura e cultura, scienze naturali e scienze sociali: da un lato il pensiero ermeneutico, dall’altro il cognitivismo. Entrambi si rivelano, alla luce di quanto sopra esposto, del tutto unilaterali, e perciò inadeguati a dare una soddisfacente soluzione al nostro problema. L’ermeneutica, come si accennava sopra riferendosi a Geertz e a Foucault, nega l’esistenza di ogni invariante biologico e di qualcosa come una “natura umana”. Le scienze cognitive a loro volta, propongono una visione astorica ed asociale dell’uomo, e perciò non appaiono in grado di cogliere la specificità dell’esistenza umana. Il collettivo della rivista “Forme di vita” propone una terza possibilità in un programma di “naturalizzazione delle scienze sociali”, che metta in primo piano l’intreccio tra il momento biologico-naturale e quello storico-linguistico, fra il piano empirico e quello trascendentale della realtà naturale umana (da quello che si è sin qui detto è chiaro che non si tratta di un ossimoro). E’ da qui a mio avviso che può essere utile e molto stimolante continuare il nostro lavoro in direzione di una terza cultura