Riflessione da Palmi

Considerazioni intorno al discorso sul metodo

(di cartesiana memoria)

di Lina Spatola

 

 

Da stralci di un intervista fatta ad Emma Castelnuovo ( pubblicata su Lettera matematica Pristem 69 - dicembre 2008:

“ ( Quando insegni )….non avere mai fretta! Tutti pensano al programma ma io dico: non è importante svolgere per forza tutto il programma. L’importante è che tutti capiscano , che tra loro gli studenti si possano aiutare

…… Tornare su uno stesso argomento, anche a distanza di un anno è molto importante…..”

Queste indicazioni fondamentali, vecchie e sempre nuove, vengono fornite da colei che ha fatto sperimentazione per la didattica in quasi settanta anni con attività di ricerca sul campo. Argomentazioni sommariamente banali ma tutt’altro che messe in atto nella scuola di questo ventunesimo secolo.

La preoccupazione principale, da anni ormai, delle istituzioni scolastiche centrali , nate anche allo scopo di fornire indicazioni ai docenti sul fare scuola, è legata ai contenuti , alla capacità ( considerata innata nel docente ) di coordinare ed elaborare i vari saperi in un quadro unitario di trasmissione degli stessi (insegnante TUTTOLOGO ed OMNISCIENTE). Non vuol questa essere una critica a tale orientamento che è pur sempre degno di rispetto ed importante. E’ ovvio che tutto ciò agevola l’acquisizione delle conoscenze in coloro che dovranno essere i futuri cittadini di un mondo sempre in evoluzione. Ma le competenze? Davvero le abilità fissate negli assi culturali di riferimento (vedi pubblicazione del Ministero della Pubblica Istruzione - Il nuovo obbligo di istruzione: cosa cambia? - normativa 2007) sono in grado di preparare i giovani alla vita adulta , all’acquisizione di quelle capacità che consentiranno loro di sfruttare al massimo le occasioni di apprendimento per tutto il resto della vita?

 

Il lavoro di puro insegnamento del docente è diventato marginale all’interno di una attività catalogata globalmente come istruzione. Si compilano fogli su fogli scritti (fortunatamente con l’uso delle nuove tecnologie in modo digitale - quindi facilmente richiamabili ed all‘uopo modificabili) di programmi sempre più specifici e sempre meno applicabili nel concreto delle realtà scolastiche odierne.

Di ogni attività (recupero in itinere ed extracurriculare, approfondimenti in ore pomeridiane ecc…) bisogna lasciar traccia nei registri con continue relazioni che descrivono situazioni in generale patetiche utilizzando termini preconfezionati, triti, ritriti e ormai largamente inflazionati.

Ma perché tutto ciò?

L’insegnante deve dimostrare che lavora e lo può fare solo facendo vedere che scrive … scrive …. scrive …

Ma chi o cosa garantisce che in classe l’insegnante riesce a trasmettere ciò per cui è stato assunto? Forse il superamento di concorsi dove nel migliore dei casi vengono chiesti contenuti che non si insegneranno mai? Concorsi dove commissioni costituite da colleghi ( pronti a ristudiare argomenti universitari abbandonati da anni ) sono costretti a giudicare migliaia di compiti scritti in pochissimo tempo per decretare una eventuale possibilità di sostenere un orale che, comunque, non garantisce niente …. O forse corsi post-laurea, che hanno portato entrate notevoli nelle casse universitarie e che si limitano a prescrivere quello che veniva considerato il tirocinio nei vecchi istituti magistrali e abilitano solo con una bella ed infiorita tesina finale? (elaborata più per accontentare il docente di turno che per esperienza e convinzione).

Altra tendenza odierna è quella di valutare gli insegnanti in base al successo formativo degli allievi.

Mi chiedo : coloro che sovrintendono centralmente le attività di istruzione si rendono veramente conto dei meccanismi che determinano le promozioni e le non ammissioni alle classi successive?

Se così fosse non si sognerebbero mai di mettere in discussione l’operato di un docente solo perché la percentuale dei suoi “ debitori” ( termine orrendo- chi lo ha coniato per la prima volta? - i ragazzi non debbono niente a nessuno e men che meno ai docenti, al più devono a loro stessi la possibilità di diventare migliori) supera un livello stabilito (ma poi da chi?).

La scuola è diventata un concentrato di burocrazia, circolari, numeri. Fare l’insegnante è quindi solo questo?

Insegnare è, invece, ciò di cui parla la Castelnuovo, è preoccuparsi che tutti imparino, è riuscire a creare un ambiente educativo collaborativo , è poter avere il tempo di lavorare sulle competenze di ciascuno e ciò non si può certamente fare con classi di trentatré allievi (vedi ultime disposizioni per la formazione delle classi ). E’ una sfida che nessun insegnante realista e con i piedi per terra si sognerebbe di accettare.

Quando il Ministero si interesserà di pubblicare indicazioni sulla metodologia specifica di insegnamento delle varie discipline? Non solo cosa l’allievo deve saper fare ma come operare perché ciò avvenga. Dicono che alcune cose i docenti le imparano con l‘esperienza, ma quanti danni prima di appropriarsi delle tecniche adeguate ed a spese di chi?

E’ come se gli venisse indicato : l’allievo deve saper andare in bicicletta. Ma qualcuno vuole dire a chi è preposto all’educazione come insegnargli ad andarci? Il docente dovrebbe saperlo fare, ma il saper fare non è purtroppo condizione necessaria per diventare ottimi insegnanti. E inoltre: il saper fare una volta acquisito costituisce la chiave universale di trasmissione o è solo l’inizio di un processo di professionalizzazione? E’ accettabile che un insegnante che rimane in servizio per più di trent’anni utilizzi sempre le stesse strategie in classe?

Le generazioni sono tutte uguali?

Ed allora ? ……. Ed allora cominciamo a parlare finalmente di metodo.

Una frase che ricorre spesso nei consigli di classe quando si parla degli allievi con i risultati più scadenti è : non hanno metodo di studio. Ma i docenti hanno sempre un giusto metodo di insegnamento?

Con una forte dose di autocritica ci si rende conto che così come l’insegnante pretende che il ragazzo lo acquisisca per magia, così l’Istituzione scolastica centrale pretende che chi è depositario di conoscenze impari a trasmetterle spontaneamente.

Emma Castelnuovo nella stessa intervista parla anche di un indispensabile ritorno alla manualità tale da consentire

un ‘ interiorizzazione adeguata dei contenuti. Riflettendo : come si può rendere il lavoro scolastico manuale? Ovviamente la manualità di cui parla la Castelnuovo nell’intervista è inserita in un contesto diverso, lei fa, in effetti, riferimento all‘uso delle mani, ma non sarebbe utile provare a estrapolare il concetto generale e calarlo nella nostra scuola (qualunque sia l’ordine ed il grado)?

Manualità = toccare con mano. Banale. La scuola come può fare in modo che gli allievi imparino toccando con mano?

Il contatto diretto (con le mani) di per sé richiede che ciò che è oggetto di interesse sia reale e non immaginario.

Come fare, quindi, che i ragazzi tocchino con mano?

Alcune sperimentazioni da anni hanno focalizzato la loro ricerca sul metodo di insegnamento e sul toccare con mano.

Le direttive scolastiche ministeriali odierne, non condividendo la priorità di queste caratteristiche come valori imprescindibili per un insegnamento efficace, hanno trascurato e dimenticato il lavoro di questi esimi docenti che hanno creduto fino in fondo al significato della parola istruzione.

Spesso purtroppo le direttive ministeriali non hanno niente di manuale! Quanta realtà scolastica nelle varie circolari viene realmente toccata con mano? Forse è il caso che venga fatta formazione educativa cominciando dall’alto?

 

 

Piccola divagazione.

Tra le varie sperimentazioni è lodevole ricordare quella del Liceo delle Scienze sociali. Di sicuro non è l’unica.

I ricercatori ( docenti convinti con una fede illimitata nell’istituzione scolastica ) hanno focalizzato la loro attenzione su due attività che hanno caratterizzato l’indirizzo: le compresenze e lo stage.

Se fosse possibile soffermarsi a riflettere ci si renderebbe conto che con la prima di queste hanno lavorato sul metodo di insegnamento e con la seconda sulla manualità, sul toccare con mano la realtà.

Hanno così concretizzato nel primo caso l’unitarietà del sapere non con le parole ma con i fatti facendo comprendere agli allievi che ogni professore non è una monade ma un ingranaggio di un sistema più complesso chiamato scuola.

Lo stage poi ha rappresentato non solo una finestra sul reale ma dove non si è limitato alla pura osservazione è diventato strumento di manipolazione , i ragazzi hanno lavorato seriamente e realmente al fianco di operatori specializzati acquisendo consapevolezza del complesso mondo in cui vivono.

La sperimentazione ha indubbiamente richiesto, nei pionieri che l’hanno ideata , un ottimo spirito di iniziativa e una discreta tenacia per riuscire ad andare contro corrente.

Questi docenti hanno forse visto più lontano degli altri? Hanno forse capito che insegnare non può essere solo una trasmissione di conoscenze? Hanno lavorato veramente sulle competenze!

Essere competente di …. non vuol forse dire ….sapere ciò di cui si sta parlando? Nel migliore dei casi i ragazzi delle scuole di questo nostro disorientato secolo sanno il significato delle parole che vengono loro insegnate e i contenuti prescritti ma questo li rende forse competenti?

Sicuramente molte sperimentazioni presentano lacune e zone d‘ombra.

Ancora la Castelnuovo nella stessa intervista: “…. in generale chi insegna non vuole mostrare le sue difficoltà, e invece spesso trova le stesse difficoltà dei suoi allievi. L’importante è non pensare di fare tutto alla perfezione…“.

La sperimentazione del Liceo delle Scienze Sociali non può certo dirsi perfetta ma non sarebbe stato il caso di alimentare ed incoraggiare queste ricerche tentando di limare, correggere, raddrizzare piuttosto che ignorare del tutto un’attività che avrebbe dato senso pieno al termine istruzione?

 

 Lina Spatola del Liceo "Corrado Alvaro" di Palmi R.C.