Politica (di Nicola Matteucci)

 

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

Politica    (di Nicola Matteucci)

sommario:
  1. La parola
  2. Lo svuotarsi di un paradigma
    1. Il concetto greco
    2. L'eredità aristotelica nel Medioevo e nell'età moderna
  3. Il nuovo paradigma
  4. Il dibattito contemporaneo
    1. Carl Schmitt
    2. Harold D. Lasswell
    3. Da Hannah Arendt a Dolf Sternberger
  5. Considerazioni conclusive

Bibliografia

 
1. La parola

Politica - nella lingua italiana - è generalmente un aggettivo femminile sostantivato, del tutto analogo al tedesco Politik e al francese politique, mentre in inglese abbiamo politics, ma anche policy per indicare le politiche pubbliche. Alla parola politica segue in genere un aggettivo, come estera, interna, economica, sociale, un aggettivo che non sempre però riguarda la vita pubblica: si parla anche della politica aziendale. L'uso del termine è decisamente neutrale: si parla anche della politica razziale di Hitler. Manca, nella lingua italiana, una parola equivalente all'inglese polity per indicare una società bene ordinata, un buon governo.Tuttavia politica può essere inteso come un neutro plurale, per indicare le cose politiche, analogamente al greco τὰ πολιτιϰά o al tedesco die Politik. Esiste anche il sostantivo il politico (Politiker, politique, politician) per indicare l'uomo politico; nel linguaggio scientifico, però, è entrato in uso per indicare l'essenza della politica o la politicità, riproducendo il neutro tedesco das Politische o il neutro plurale inglese politics. Questo uso sostantivato di valore neutro serve o dovrebbe servire a distinguere il politico dal privato e dal sociale. Esiste anche l'aggettivo politico, che si accompagna a un'infinità di parole, come partito, élite, partecipazione, cultura, regime, sistema. Talvolta serve anche per indicare virtù private come la prudenza.Come si vede, questo termine, sia per l'inflazione del suo uso generico, sia per il suo uso improprio, è suscettibile dei significati più diversi e più disparati, e non esprime più un concetto univoco e forte: la sua estensione semantica indebolisce il concetto. La nostra parola di origine greca si precisa solo con l'aggettivo che la segue o con il sostantivo che la precede. Con riferimento ad altri concetti politici moderni - soprattutto, ma non solo, dell'Ottocento - essa diventa un termine subordinato al concetto di Stato (o di governo). Nella lingua tedesca appare il concetto di Herrschaft che, in una traduzione debole, significa potere, in una traduzione forte, indica il dominio. Per Max Weber la politica è la lotta per il potere, per il monopolio legittimo della forza; per la Scuola di Francoforte il dominio materiale e totale della società esclude ogni possibilità della politica, che non sia un radicale rovesciamento del sistema.Per tentare di pervenire a una definizione concettuale di 'politica' è necessario - in prima istanza - procedere ad alcune distinzioni. La politica si riferisce all'azione umana, che si dà in un mondo di azioni: ciò implica una molteplicità di soggetti agenti in una situazione sempre precaria e mutevole. Questa azione vuole mutare l'esistente (non importa in che senso) e non ha pertanto obiettivi conoscitivi: essa è soltanto prassi, una prassi mossa da valori e/o interessi. È un'azione cosciente, dato che a essa è immanente un sapere pratico che i Greci chiamavano ϕϱόνησιϚ; il termine latino prudentia è rimasto in età moderna, mentre oggi usiamo diverse parole, fra cui senso, arte, fiuto politico. Le massime per l'azione sono poi state nel tempo passato raccolte in manuali di precettistica.Il concetto di politica è dunque strettamente collegato alla prassi, all'azione, e questo ci permette di distinguere radicalmente la politica come prassi dalla politica come oggetto di conoscenza: in primo luogo dalla scienza empirica della politica, che ha come campo d'indagine l'osservazione delle azioni e perviene alla compilazione di complesse tipologie; in secondo luogo dalla filosofia politica, che cerca gli universalia dell'agire politico (pensiamo a Croce, Weber, Schmitt); in terzo luogo dalla storia del pensiero politico, che è una storia di valori politici: molti - o troppi - che hanno cercato di definire la politica si sono ridotti poi a stendere una storia del pensiero politico, un pensiero che spesso non è collegato con la prassi. Più utile è seguire la storia della parola coniugata alla storia del concetto, anzi allo svuotarsi del suo significato, per capire - nelle grandi rotture epocali - le più profonde trasformazioni sociali e istituzionali nelle quali si dà il fenomeno politico. Detto questo, resta pur sempre ineludibile il compito di definire - oggi - nel vasto oceano delle azioni, quali siano ritenute politiche e quali no. I Greci distinguevano radicalmente la sfera pubblica della politica da quella privata della casa (οἶϰοϚ); nel Medioevo si distinse la politica dalla morale, dal diritto, dall'economia, dalla cultura, ciascuna avendo ambiti istituzionali e principî suoi propri. Ma una vera rottura fra politica e morale si ha solo in età moderna. Oggi si parla, invece, di politica della famiglia, politica del diritto, politica economica, politica culturale: la politica sembra essere dappertutto, investendo e sbriciolando ogni sfera autonoma. Lo Stato contemporaneo sembra aver distrutto tutte quelle differenziazioni istituzionali, tutte quelle autonome arene nelle quali si era formato lo Stato moderno.


2. Lo svuotarsi di un paradigma

a) Il concetto greco
Per comprendere il significato autentico di una parola bisogna risalire alle sue origini. Politica deriva da πόλιϚ, la comunità cittadina greca. La πόλιϚ fu il risultato di un lento, spontaneo sviluppo, dovuto al concorso di più forze e di più circostanze. Con ciò s'intende che questa forma della convivenza civile radicalmente nuova e originale non fu il risultato di un progetto o di una imitazione: fu il frutto casuale e spontaneo della storia sociale e politica greca. È unita al termine πόλιϚ con un legame assai stretto - ora perduto - una famiglia di parole: tutte, da un lato, sottolineano lo stesso concetto, dall'altro si riferiscono a un'esperienza storica comune e hanno, quindi, uno stretto legame con la prassi.La πόλιϚ è una città autonoma perché indipendente, autarchica perché basta a se stessa. Essa è abitata dai cittadini (πολῖται), che hanno il diritto di cittadinanza (πολιτεία): proprio perché uniti in una comunità, in una ϰοινωνία, essi si occupano permanentemente della cosa pubblica, della vita della πόλιϚ in pace e in guerra, e la loro presenza costituisce l'identità politica della città. Vi è anche il politico, il πολιτιϰόϚ (al maschile), per indicare chi ha rilevanza o eccelle nel disbrigo degli affari della città, ma senza appartenere a una separata classe politica: per il cittadino l'essere partecipe e non destinatario della politica implica una completa partecipazione e politicizzazione. Passando alla riflessione filosofica, τὰ πολιτιϰά indica le cose pubbliche, πολιτεία - oltre il diritto di cittadinanza - indica la costituzione e spesso la costituzione giusta. Inoltre, per indicare la scienza che ha come oggetto la politica c'è l'espressione πολιτιϰὴ ἐπιστήμη.
Uno dei primi a suggerire in che cosa consista la politica fu Protagora (ca. 480-410 a.C.). Nel famoso mito (DK 80 C 1) mostra come gli uomini, pur avendo avuto da Prometeo l'arte tecnica, non riuscissero - uscendo dai boschi - a convivere fondando una città, perché erano privi dell'arte politica (πολιτιϰὴ τέχνη). Allora Zeus mandò loro Giustizia (δίϰη) e Rispetto (αἰδώϚ) e incaricò Ermes di distribuirli a tutti, perché altrimenti la città non sarebbe potuta esistere. In quest'ottica la politica è, dunque, un dono degli dei. Al democratico Protagora si contrappone Platone (427-347 a.C.), che vede la scienza politica (πολιτιϰὴ ἐπιστήμη) posseduta soltanto da pochi o da uno solo. Nel Politico fa tuttavia un'affermazione interessante: paragona il πολιτιϰόϚ al tessitore, che con la sua scienza (ἐπιστήμη) o la sua arte (τέχνη) con cose diverse (le concause o cause ausiliari) riesce a costruire un solo ordito. Certo il protagonista è il πολιτιϰόϚ, mentre gli altri sono soltanto materia passibile della sua forma; ma è solo un protagonista, non certo un creatore. Questa definizione del politico come tessitore è importante nella misura in cui indica la capacità di unire gli uomini in una comune prassi. Platone resta, tuttavia, dominato da un'esigenza assoluta e indeclinabile: quella dell'unità politica. È per questo che viene criticato da Aristotele (384-322 a.C.), che condanna proprio quel fine dell'unità che la πόλιϚ dovrebbe raggiungere come suo bene supremo: questa unità infatti distruggerebbe la πόλιϚ che per sua natura è pluralità, πλῆθοϚ (Pol. II 2, 1261a, e III 1, 1275a).
È nota la definizione aristotelica dell'uomo distinto dalle bestie e dagli dei (Pol. I 2, 1253a): egli è per natura un animale politico (πολιτιϰὸν ζιῶον). Se "la natura è il fine" (Pol. I 2, 1252b) l'uomo ha la possibilità di tendere alla realizzazione delle proprie potenzialità naturali soltanto nella comunità politica. Si è detto che con questo Aristotele definisce l'uomo, non la politica, ma l'affermazione è valida solo se estrapoliamo la citazione dal contesto. Infatti l'uomo, solo tra gli animali, ha la parola (ζιῶον λόγον ἔχον) e la voce gli serve per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l'ingiusto, per cui la giustizia (διϰαιοσύνη) è il fine della πόλιϚ (Pol. I 2, 1253a). La πόλιϚ, infatti, è una comunità che si costituisce in vista di un bene (Pol. I 1, 1252a) e solo in essa si realizza il fine naturale dell'uomo (Pol. I 2, 1253a). Nell'Etica Nicomachea Aristotele definisce l'azione politica come πϱᾶξιϚ e la differenzia dall'azione produttiva o fabbricatrice (ποίησιϚ) (Eth. Nic. VI 2, 1139a-b). Si tratta di agire secondo la retta ragione (Eth. Nic. II 2, 1103b) e la retta ragione è la saggezza o ϕϱόνησιϚ (Eth. Nic. VI 13, 1144b), la quale non è la tecnica (τέχνη) propria del sapere produttivo.La πόλιϚ è composta da una molteplicità di uomini liberi ed eguali (Pol. III 1, 1275a): la libertà, però, non è del singolo, ma della πόλιϚ, l'eguaglianza (ἰσονομία) è solo nella cittadinanza, e a tutti è consentito - come afferma Erodoto (490/480-ca. 424 a.C.) - il diritto di parola (ἰσηγοϱία). Ciascuno è, a vicenda, governante e governato e l'autorità del πολιτιϰόϚ si esercita su uomini liberi ed eguali (Pol. I 7, 1255b).
Le cariche, infatti, sono limitate nel tempo e quindi c'è una circolazione nelle funzioni di governo. In questo contesto non appare una vera e propria classe politica, non si può parlare di un dualismo fra società e potere.Tutti i cittadini partecipano ai lavori dell'assemblea, pochi accedono alle funzioni di giudice e alle cariche (Pol. III 1, 1275a): un giusto titolo alle cariche è dato da valori diversi, come la nobiltà, la libertà, la ricchezza, la giustizia e la virtù (Pol. III 12, 1283a). Aristotele, ancora una volta, mescola il principio democratico e quello aristocratico, la giustizia aritmetica, dove vige un'eguaglianza aritmetica, e la giustizia geometrica, dove vige un'eguaglianza proporzionale (Eth. Nic. V 5, 1130b-1131a). Ma di che cosa si occupano i cittadini, in che cosa consiste il loro fare politica? Potrà sembrare strano, ma per loro non rientra nella politica la nostra politica estera - anche se è l'uomo politico che decide la pace e la guerra - e tanto meno la politica sociale, che è diretta a soddisfare i bisogni per fornire sicurezza alla mera vita materiale.
Nella sua netta distinzione fra πόλιϚ e οίϰοϚ, la casa che è sede dell'attività economica, Aristotele parla delle diverse relazioni di autorità che si danno nell'amministrazione della famiglia, dove troviamo i rapporti fra padrone e servo (o schiavo), fra padre e figli, fra marito e moglie (Pol. I 3, 1253b), nei quali si comanda in modo diverso. Questo tema lo ritroveremo agli inizi dell'età moderna. Lo schiavo è un oggetto, uno strumento di mera proprietà, mentre sui figli il capofamiglia ha l'autorità paterna del re, e con la moglie ha un rapporto - anche se attenuato - politico (Pol. I 12, 1259b). L'autorità del padrone e quella del politico sono radicalmente diverse, dato che quest'ultima si esercita solo su uomini liberi (Pol. I 7, 1255b). La prima - ovviamente - è un'autorità dispotica e tutta la Politica è percorsa da un'opposizione al dispotismo e alla tirannide.La Politica è una vasta analisi delle costituzioni delle πόλειϚ greche, un'analisi di scienza politica proprio per il suo fondamento empirico e per il suo metodo comparato. Essa sarà letta e interpretata nei secoli posteriori soprattutto nei passi che abbiamo ora indicato: quelli sulla natura dell'uomo come animale politico, nei quali è presente una forte carica polemica contro la tirannia e il dispotismo, e quelli sulle diverse forme di autorità dispotica, paterna, politica. Erano, questi, dei concetti che corrispondevano a un'esperienza storica comune, a una prassi condivisa: quella, appunto, della πόλιϚ.

b) L'eredità aristotelica nel Medioevo e nell'età moderna
L'aggettivo politicus è raro nella lingua latina, anche se è usato da Cicerone; irrompe soltanto nel Medioevo, dopo la traduzione in latino della Politica di Aristotele (ca. 1260) fatta da Guglielmo di Moerbeke, nei diversi commenti di Tommaso (1221-1274). Si inserisce, però, in una costellazione di parole assai mutata: le parole dominanti sono civis, civitas; l'aggettivo civilis spesso s'accompagna - o lo sostituisce - all'aggettivo politicus quando si parla di communitas, societas, scientia, prudentia, e si usa anche il civiliter vivere. Questo si spiega facilmente col fatto che è scomparso il referente forte, la πόλιϚ, alla quale gli stoici (e anche Cicerone) contrappongono la nuova μεγαλόπολιϚ. I termini per indicare l'unità politica sono altri: regnum, regimen, dominium, principatus. Quell'organica costellazione di parole, propria dei Greci, si sfalda e si perde così il concetto autentico che la parola politica sottintendeva.Tommaso è incerto nel tradurre l'aristotelico πολιτιϰèον ζιῶον: nel De regimine principum lo rende con "animal sociale et politicum", nella Summa theologiae parla sia di animal sociale, sia di animal politicum, mentre nella Sententia libri politicorum è l'aggettivo - già visto - civile che prevale. Si è persa l'autentica dimensione del πολίτηϚ. A riscontro basta vedere l'esigenza - anche se in forma non moderna - dell'unità, che domina non soltanto il De regimine principum, con il quale s'inaugura un genere politico destinato ad avere fortuna sino alla fine del Cinquecento: al principe, che rappresenta l'unità politica, si deve solo obbedienza. La communitas politica o civilis ha certo un fine, ma il vivere bene aristotelico è assai lontano da quel bonum commune che Tommaso iscrive in una gerarchia di fini che hanno il loro fondamento ultimo nella teologia e come realizzatore il principe stesso.
Ma tramite Tommaso qualcosa dell'eredità aristotelica entra a far parte della cultura medievale e moderna. La distinzione aristotelica fra πολιτιϰή ἀϱχή e δεσποτιϰèη ἀϱχή resta al centro della speculazione politica di Tommaso, tutta costruita nell'opposizione fra il principatus politicus e il principatus despoticus. L'aggettivo politicus resta, ma non per indicare l'azione o la prassi del πολίτηϚ: esso indica un ordinamento conforme a una giusta costituzione, non al vivere politico. Il significato del termine πολιτεία o politia resta con un accento esclusivamente assiologico. Si ricollega a Tommaso John Fortescue (ca. 1409-1476), che tanta influenza avrà sul costituzionalismo inglese: mentre il primo aveva fatto anche la distinzione fra regimen regale e regimen politicum, riferendosi rispettivamente al regnum e alla civitas, il secondo nel De laudibus legum Angliae distingue il dominium regale, proprio della monarchia assoluta francese, e il dominium politicum et regale, proprio della monarchia limitata inglese. Con quel politicum di Fortescue inizia la problematica del moderno costituzionalismo, che è assai debitore ad Aristotele.Tracce dell'eredità aristotelica sono rinvenibili anche nei tempi moderni. Niccolò Machiavelli (1469-1527) nei Discorsi usa frequentemente l'espressione "vivere politico" assieme a quelle di "vivere civile" e "vivere libero". Ma mentre le prime due sono usate sia per le repubbliche, sia per i regni ove ci sia la supremazia della legge, l'ultima è usata solo per le repubbliche. Il concetto greco emerge con più forza nella Politica methodice digesta di Johannes Althusius (1557-1638), il quale afferma sin dall'inizio che "la politica è l'arte per mezzo della quale gli uomini si associano allo scopo di instaurare, coltivare e conservare tra di loro la vita sociale. Per questo motivo essa è definita 'simbiotica'".In età moderna ritorna la tripartizione aristotelica delle forme di potere, delineata a proposito dell'amministrazione della casa: abbiamo un potere dispotico, un'autorità paterna (sui figli) e una 'politica' sulla moglie. Thomas Hobbes (1588-1679) distingue due tipi di Stato (in realtà chiamati o city o common-wealth): quelli naturali (natural) e quelli per 'istituzione', definiti anche political (De cive, V 12). Quelli per istituzione nascono dal contratto di unione, mentre gli altri sono appunto naturali e sono il dominio (dominion) paterno e quello dispotico (Leviathan, II 20). Ci si aspetterebbe una radicale distinzione fra il primo, 'politico', e gli altri due, 'naturali', ma Hobbes risolve il problema con una semplice affermazione: "i diritti e le conseguenze del dominio, sia paterno che dispotico, sono proprio gli stessi di un sovrano per istituzione" (Leviathan, II 20). John Locke (1632-1704), invece, diverge radicalmente da ciò: esclude che la famiglia appartenga alla political or civil society (Two treatises of government, II 7), riconosce la legittimità del potere paterno sui figli sino alla loro maggiore età, ritiene contro natura il potere dispotico, mentre il potere politico (political power) è solo quello istituito da un contratto. In fondo Locke, il fondatore del moderno costituzionalismo, resta fedele al pensiero greco nell'usare la parola politica, ma non tanto ad Aristotele, anche se parte dalla sua tipologia, quanto all'idea della politica intesa come l'arte di associarsi (II 15). Una pari condanna del governo paterno c'è in Immanuel Kant (1724-1804), che non lo considera uno Stato giuridico o civile, come afferma nel saggio dal titolo Über den Gemeinspruch: das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis. L'imperium paternale viene contrapposto all'imperium civile, che è l'unico adeguato alla modernità (Zum ewigen Frieden).
Da ultimo non possono essere tralasciate alcune considerazioni sulla ricezione medievale e moderna della philosophia practica. Sempre interpretando Aristotele, Tommaso aveva diviso la filosofia morale in tre branche: "una analizza le azioni del singolo individuo ordinate al fine, e prende il nome di monastica. La seconda ha per oggetto le azioni della comunità domestica, e viene detta economica. La terza infine si occupa delle azioni nella comunità civile, e il suo nome è politica" (In decem libros ethicorum expositio, I 1).
Aristotele aveva distinto tre diverse forme di ϕϱόνησιϚ in relazione all'agire nella πόλιϚ, all'agire nell'οἶϰοϚ e all'agire dell'individuo (Eth. Nic., VI 8), ma aveva parlato di una sola ἐπιστήμη πϱαϰτιϰή. In realtà poi egli relativamente all'agire nella πόλιϚ distingue e unisce, perché fa interagire etica e politica e pone la scienza politica come regina di tutte le altre scienze pratiche (Eth. Nic., I 1, 1094b), mentre Tommaso non solo iscrive la sua philosophia practica nella teologia, ma subordina anche la politica all'etica.La philosophia practica non solo è presente nella Scolastica e nelle enciclopedie medievali, ma viene recepita nelle università tedesche dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento: l'ultimo grande esponente di questi studi fu Christian Wolff (1679-1754) con la sua Philosophia practica universalis, dove tratta in modo sistematico, ma anche eclettico, di etica, economia e diritto. Immanuel Kant segnò la fine di questa tradizione, già intaccata dalla scienza politica moderna di Hobbes e dalla cameralistica. Rientrano in questa tradizione le opere di Christian Thomasius (1655-1728), il quale, al posto dell'economia (ormai dominio incontrastato della cameralistica), pone il diritto. Egli individua tre valori: l'honestum per la morale, lo justum per il diritto, e il decorum per una politica senza coercizione (Fundamenta juris naturae et gentium, I, VI, 40-43). L'importanza della philosophia practica sta nell'aver ricercato (ma con scarsi risultati) di definire la politica - aristotelicamente - in termini di azione, di prassi, senza lasciarsi influenzare dal paradigma moderno, quello dello Stato. Oggi essa è ritornata in auge con la Rehabilitierung der praktischen Philosophie, una corrente di pensiero che in Germania ha tentato di riattualizzare l'etica e la politica di Aristotele.

3. Il nuovo paradigma

Nel Cinquecento comincia a delinearsi un nuovo paradigma, con una sua propria costellazione di concetti: la parola politica non esce dal linguaggio comune, ma perde lentamente il suo peso e soprattutto il suo significato normativo. La continuità terminologica nasconde una rivoluzione semantica, perché il nuovo per prendere coscienza di sé ha bisogno di nuove categorie. Certo, nella Francia cinquecentesca il termine police ha una rilevanza costituzionale: per Jean Bodin (1529-1596) indica la complessa rete degli uffici, delle magistrature, dei commissari, dei corpi e dei collegi, delle assemblee degli Stati e dei Consigli che hanno come fine quello di mantenere il buon ordine, l'armonia nella società governata da una monarchie royale. Per dirla con Charles Loyseau (15661627), questa complessa rete metteva il re nella felice impotenza di fare il male.Chi per primo intuisce che le nuove realtà dei moderni non possono essere comprese con il vocabolario degli antichi è Niccolò Machiavelli: come si è visto l'espressione 'vivere politicamente' ricorre frequentemente nei Discorsi, ma la parola politica non compare mai nel Principe. Questa consapevolezza appare anche da alcuni capitoli dei Discorsi (I 25 e 26, ma anche 18). Dopo aver consigliato il rispetto della tradizione a "colui che vuole ordinare uno vivere politico, per via di repubblica o di regno", Machiavelli afferma: "ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, deve rinnovare ogni cosa"; e nel capitolo seguente consiglia al "nuovo principe" di "usare modi crudelissimi e nemici d'ogni vivere non solamente cristiano, ma umano": "quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male". Questa è la lezione del Principe, che - non dimentichiamolo - ha come protagonista il "principe nuovo", che per fortuna e non per virtù ha acquistato il suo dominio. Egli ha bisogno soltanto di due virtù, la scaltrezza e la forza, quella della "golpe" e quella del "lione", ma queste capacità della "bestia" (Principe, XVIII) sono lontanissime dalla ϕϱόνησιϚ aristotelica come dalla prudentia o prudenza di coloro che l'avevano interpretata.Per indicare questa nuova realtà opposta alla politica Machiavelli usa frequentemente il termine Stato, ma anche signoria o dominio; e il dominio è l'opposto della politica. La parola Stato da Machiavelli non viene approfondita concettualmente, non è centrale nella sua riflessione, e ha, anzi, diversi significati: indica l'estensione territoriale, la popolazione soggetta al dominio del principe, ma anche il potere, la signoria, il dominio del principe. Siamo ancora lontanissimi dal concetto moderno di Stato, ma la parola comincia a entrare in uso, anche se in Europa incontra difficoltà dato che sino a Kant si preferisce restare fermi ai derivati di res publica. Saranno gli scrittori politici realistici, che annoveriamo sotto l'etichetta di 'teorici della ragion di Stato', a imporla: Giovanni Botero (1544-1617), sin dalle prime battute della sua opera dal titolo Della ragion di Stato (I 1), afferma che 'Stato' è "un dominio fermo sopra popoli, e ragion di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio cosiffatto". La parola lentamente prende spessore concettuale, anche per opera dei giuristi, annettendosi il termine politico. Al termine di questo processo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che ben conosceva il pensiero greco, nella Rechtsphilosophie definì il suo "uno Stato propriamente politico" (§ 267). Ma era soltanto l'uso di una parola del passato.
In questa storia la parola 'politica' mostra un'ambiguità semantica per la tensione dei significati a essa attribuiti. Ciò si verifica in maniera evidente durante le guerre di religione in Francia. Attorno al cancelliere Michel de L'Hospital (1505-1573) si era costituito un gruppo di legisti e di magistrati: sono i politiques che miravano soprattutto a salvare il Regno di Francia dai conflitti religiosi fra papisti e ugonotti e per questo miravano realisticamente a realizzare mediante editti di tolleranza una pace religiosa in nome del primato della politica. Il termine politique era forse legato ad Aristotele, dato che la Politica era stata tradotta nel 1658 da Louis Le Roy. Un esponente del gruppo, Étienne Pasquier (1529-1615), il più grande storico che ebbe la Francia nel Cinquecento, in un breve dialogo sulla miglior forma di governo, il Pourparler du Prince (1560), contrappone il 'cortigiano', che consiglia al re di ampliare il suo dominio anche a costo di diventare tiranno, al 'politico', che difende le antiche istituzioni del Regno, gli Stati Generali e i Parlamenti, facendo un'apologia degli antichi ordini ai quali tutti - dal popolo al principe - dovevano essere sottoposti. Pasquier non è certo lontano da Machiavelli, quando descrive il regno di Francia. Durante le guerre di religione il termine politique diventa per entrambi i partiti religiosi subito sospetto, perché in esso si afferma un primato della politica sulla religione: i politiques sono soltanto "libertins, épicuriens et athéistes". Dopo la strage della notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572) da parte ugonotta uscirono - tra gli altri - due volumi in cui la condanna di Machiavelli si accompagna alla giustificazione del tirannicidio: l'Anti-Machiavel (1576) di Innocent Gentillet, e le Vindiciae contra tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus (pseudonimo di Hubert Languet o di Philippe Duplessis-Mornay).
Il dibattito sulla politica si intreccia, così, con la polemica su Machiavelli e anche con i teorici della ragion di Stato, i quali, lettori di Tacito, parlavano degli arcana imperii o dominationis, dell'arte della simulazione e dell'obiettivo di ottenere dai sudditi obbligazione e obbedienza. Ma non c'è nessun approfondimento concettuale e non si va oltre la contrapposizione fra una vera scienza politica e una scienza politica tirannica, già impostata da Innocent Gentillet. Si è ancora fermi all'ideale medievale del principe cristiano (che ha la sua fonte più in Platone che in Aristotele), senza prendere coscienza che la politica, per i Greci, possedeva una dimensione orizzontale, mentre nei tempi moderni si parla solo di un principe che esercita un dominio. Il dibattito fra moralisti e realisti è solo sulle virtù del principe: c'è chi vuole che governi secondo giustizia e secondo virtù; e chi, invece, vuole che, pratico delle cose mondane, sia attento alla ratio necessitatis.
La parola 'politica' diventa ambigua: può essere bella o brutta a seconda del giudizio morale che pronunciamo sulle azioni del principe. Nell'articolo Politique, contenuto nel XII volume dell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, si protesta contro l'abuso di coprire con il nome di politica le arti della tirannide: il vero principe deve avere "un cuore grande".
La parola 'politica' perde il suo peso concettuale, ma nell'età della secolarizzazione si aprono grandi dicotomie: dopo quella fra politica e religione, appaiono quella fra politica ed etica e quella fra politica ed economia, poi quella fra politica e amministrazione e, infine, quella fra politica e cultura.Per capire la nuova realtà, che poi prenderà il nome di Stato, era necessaria una radicale rottura con la tradizione aristotelica che, tramite Tommaso, continuava - anche se in modi diversi - a contrapporre il principe cristiano e il tiranno. Era necessario un nuovo paradigma, che segnasse radicalmente la fine della politica e usasse una nuova costellazione di parole incentrata su un nuovo concetto forte. Questo fu espresso dal termine 'sovranità', che col tempo, assieme a 'territorio' e 'popolo', costituirà la triade su cui si articola il moderno concetto di Stato.
A compiere questa radicale rottura fu Thomas Hobbes, che conosceva benissimo il greco. In un'opera minore, il Behemoth, indagando sulle cause delle guerre civili inglesi, ha parole durissime contro Aristotele: "Nessuno tra gli scritti dei filosofi antichi è paragonabile a quello di Aristotele, quanto alla capacità di confondere e invischiare gli uomini con le parole, e alimentare così le loro dispute".
Al πολιτιϰèον ζιῶον egli contrappone l'homo homini lupus dello stato di natura, nel quale l'individuo ha un diritto naturale all'autoconservazione. Lo Stato - a differenza della πόλιϚ - è soltanto una costruzione artificiale: è il suo imperium, il suo potere effettivo, a fondare la ϰοινωνία, l'unità e l'identità politica dei cittadini, ridotti però al silenzio sul destino della città perché è solo il sovrano a rappresentarli. Il sovrano non ha soltanto il monopolio della forza, ma anche quello dell'interpretazione, sia delle leggi naturali sia delle Sacre Scritture, quindi anche della morale.È la fine della politica: essa continua solo fra gli Stati, i quali sono fra loro in uno stato di natura e quindi di potenziale guerra (ma Hobbes non usa certo la parola politica). All'interno dello Stato il sovrano non fa politica: la sua azione, diretta a mantenere la pace, è ispirata da imperativi tecnici, da una razionalità meramente formale, e le sue decisioni devono essere funzionali al fine. Così il fine dello Stato assoluto è la neutralizzazione, cioè la spoliticizzazione della società. La politica interna appare come pura amministrazione in base a chiare leggi stabilite dal sovrano.L'amministrazione: nella lingua tedesca abbiamo nel Sei e Settecento il termine Polizey o Policei, del tutto analogo al francese police e all'italiano polizia (usato da Botero), dato che tutti derivano dal latino politia.
Ma ora tali termini indicano l'amministrazione. In Germania la Polizey ha un grande impulso scientifico tramite la cameralistica: questa nuova scienza - comprensiva, alle origini, di diversi ambiti disciplinari, sociali ed economici - era al servizio del principe per la buona amministrazione dei suoi territori e aveva come fine la sicurezza interna e il benessere dei sudditi. Essa è una scienza in quanto non parla astrattamente dell'arte di governare secondo giustizia, ma studia sul piano amministrativo i mezzi per la gestione finanziaria, per la politica economica, per realizzare il buon ordine in una società amministrata. C'è un disciplinamento sociale attraverso la scienza dell'amministrazione, criticata alla fine del Settecento per il suo eccessivo dirigismo legato a una concezione paternalistica dello Stato. Nella Policei domina un sapere empirico, non l'antica prudenza, una razionalità rivolta a un fine, non la proposta di una società virtuosa. Dall'arte del governo siamo passati alle scienze al servizio dello Stato.
L'antico significato di politia è del tutto scomparso, ma la parola politica riappare per indicare le diverse politiche interne dello Stato, come la politica amministrativa, finanziaria, agraria, fiscale, che fanno capo alle nuove diverse specializzazioni della cameralistica, perché queste scienze sono in funzione della legislazione del principe.Con la crisi dello Stato assoluto, in seguito alla rivoluzione democratica, appare un potere ascendente contrapposto al vecchio potere discendente. Nel 1848 si parla di emancipazione politica dei cittadini in uno Stato democratico, si contrappone la politica del popolo a quella del governo, si vede nell'agire politico la promozione della libertà e dell'eguaglianza. La Allgemeine Staatslehre compie un formidabile sforzo teorico per fondere Stato e popolo, la maiestas personalis e la maiestas realis. Dopo il fallimento di questo sforzo ci si accorge che la società - un tempo spoliticizzata - si ripoliticizza e appaiono nuovi soggetti, come i partiti, e nuovi fenomeni, come la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Gli uomini, per comunicare fra loro e discutere i problemi della loro vita associata, hanno bisogno di parole e così ritorna, con questo potere ascendente, il vecchio termine politica, ma l'estensione semantica finisce per indebolire il concetto e abbiamo le politiche e non la politica, politiche del tutto estranee alla politica greca.
Max Weber (1864-1920) nel saggio Politik als Beruf è consapevole dei pericoli di questa eccessiva estensione semantica della parola e propone una sua definizione: "Politica significherà dunque per noi aspirazione a partecipare al potere o a influire sulla ripartizione del potere, sia tra gli Stati, sia nell'ambito di uno Stato tra gruppi di uomini compresi nel suo territorio". D'altronde il concetto di potere è centrale nella sua grande opera sistematica Wirtschaft und Gesellschaft.
Questa definizione si iscrive nel tradizionale concetto di Stato (sintesi di sovranità, territorio, popolo), di cui sottolinea - alla Hobbes - il "monopolio legittimo della forza fisica": il suo concetto di Herrschaft suona spesso più come dominio (da dominus) dall'alto, che come potere (o meglio prassi) dal basso. Per quanto sia felice la sua definizione della politica, essa però rimanda ad altro, al potere (o al dominio), allo Stato. Eppure in Politik als Beruf Max Weber ebbe un'illuminante intuizione di sapore greco: l'autentico politico deve avere "passione, senso di responsabilità, lungimiranza", e questo lo differenzia dai professionisti della politica. Ma questa intuizione contiene un giudizio di valore, mentre la sua sociologia si basa su giudizi di fatto.
L'uso della parola politica si trasferisce, così, dallo Stato (con la sua politica estera e le sue politiche interne) alla società: si parlerà così di partecipazione politica e di partiti politici. Nel Novecento, però, con solidi ancoraggi al pensiero ottocentesco, appare nella prassi - una prassi munita di una ben precisa teoria, quella marxista - un nuovo concetto forte di politica, in cui questa si contrappone alla politica come routine, la quale si limita ad amministrare i meri interessi esistenti avendo soltanto fini immediati. È la 'politica assoluta', che mira alla totale trasformazione della società attraverso una prassi rivoluzionaria al fine di realizzare una società pacificata, nella quale - essendoci armonia - scompaia la politica. Su questa linea si muovono il socialismo marxista e il socialismo anarchico. Per raggiungere questo fine ha luogo una 'politicizzazione' di tutte le manifestazioni della vita e la politica tende a farsi totale: il nuovo principe - per Gramsci il partito rivoluzionario - incarna la stessa istanza etica. In realtà si tratta di una teologia laicizzata (o secolarizzata) della redenzione umana o della salvezza ultima, che mantiene però intatta la vecchia struttura concettuale escatologica: eliminare il male dalla storia per attuare il regno di Dio in terra, per realizzare una compiuta felicità terrena. Il fine ultimo è, così, la scomparsa della politica.

4. Il dibattito contemporaneo

Nel linguaggio comune la parola politica si è profondamente consumata, o meglio svuotata del concetto che essa sottintendeva quando venne forgiata nell'età della πόλιϚ. Tuttavia le scienze sociali in senso lato, cioè quelle il cui interesse è rivolto essenzialmente all'azione dell'uomo, sentirono l'esigenza, proprio per dare ordine alle loro ricerche, di ridefinire la 'politica'. È necessario pertanto esporre tre definizioni, che si possono ritenere paradigmatiche o emblematiche perché colgono o situano la politica in tre campi diversi e lontani, senza alcuna pretesa da parte nostra di essere esaustivi. Queste tre definizioni risentono della formazione culturale dei loro autori, del campo delle loro indagini e, infine, delle loro opzioni politiche, ma sono illuminanti per il dibattito politico contemporaneo alla ricerca del concetto di politica.

a) Carl Schmitt
Carl Schmitt (1888-1985) è l'erede - nonostante tutte le critiche che le rivolge - della grande scuola dell'Allgemeine Staatslehre, ma mentre questa aveva dissolto il concetto di politica in quello di Stato, egli con Der Begriff des Politischen (v. Schmitt, 1932³), per dare una definizione universale e non storicamente condizionata del 'politico', procede a una radicale dissociazione di Stato e politica; il che gli consente - come vedremo - di comprendere fenomeni nuovi di questo dopoguerra. Nell'età moderna, con l'affermazione dello Stato assoluto, si è rivolta l'attenzione soltanto allo Stato, che può essere però definito solo dal concetto di politico: lo Stato è quell'organizzazione del potere che ha, appunto, il monopolio del politico. Per approfondire un concetto - secondo Carl Schmitt - bisogna individuare il suo opposto, come in altre discipline dove vigono le coppie bello/brutto, utile/dannoso, buono/cattivo. Per definire il politico Schmitt propone l'antitesi amicus/hostis, dove il nemico è il nemico esistenziale, cioè il nemico in guerra, un nemico che deve essere ucciso, e la guerra può essere quella classica fra Stati, ma anche la guerra civile. Proprio questa antitesi determina il massimo grado di unione nel gruppo sociale e la massima divisione dall'altro gruppo. Se rompe con la tradizione dell'Allgemeine Staatslehre, Schmitt rompe anche con la più antica tradizione della philosophia practica. Questa, infatti, studiando l'azione, aveva individuato dei modi di agire diversi dalla politica, dei campi neutrali d'azione: la morale, l'economia, il diritto (ma Schmitt aggiungerebbe anche la religione e l'arte). Nella vita umana però non esistono - secondo Schmitt - campi neutrali, dato che l'antitesi amicus/hostis può investirli tutti, e quindi la politica può essere dappertutto.Sarebbe un grave errore interpretare questa definizione come se la guerra fosse lo scopo o la meta o il contenuto della politica: la guerra è solo il caso limite in cui meglio possiamo cogliere la vera natura di questa antitesi; o ancora la guerra è solo il "presupposto della politica, sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l'azione dell'uomo provocando così uno specifico comportamento politico".
Chi fa politica deve sempre sentire incombente la possibilità reale del momento dell'ostilità, della guerra. Se l'inimicizia è il concetto primario, essa però si palesa con intensità diversa, perché può essere relativizzata. La vecchia guerra fra gli Stati, dominante dal Cinquecento sino alla prima guerra mondiale, è stata relativizzata dal lento formarsi del diritto internazionale, che Schmitt chiama lo jus publicum europaeum (Der Nomos der Erde, 1950): esso, infatti, è riuscito a relativizzare le ostilità sino a quando - nelle moderne guerre ideologiche - il nemico è stato trasformato in delinquente e criminale.L'attenzione di Carl Schmitt si rivolge anche alla guerra civile, dove l'ostilità è assoluta: un tempo ci furono le guerre di religione, ma lo Stato assoluto riuscì a neutralizzare e a spoliticizzare la società, distinguendo radicalmente la vera politica, che è la politica estera, dalla politica interna che è soltanto Polizei, cioè amministrazione.
Lo Stato liberale poi (del quale il Nostro è avversario dichiarato) riesce a relativizzare i conflitti (e quindi la politica) al suo interno, conflitti dovuti all'esistenza dei partiti e dei sindacati; ma in questo Stato resta sempre la possibilità di una guerra civile, che si verifica quando appare il rivoluzionario di professione che - a differenza del vecchio partigiano - proprio per il suo impegno politico totale ha un nemico non reale, ma assoluto. Infine c'è una terza forma di ostilità, una ostilità assoluta che non si dà fra gli Stati o all'interno di uno Stato: è il terrorismo internazionale cui si accenna nella Theorie des Partisanen (v. Schmitt, 1963), nel quale è il terrorista che decide chi è il nemico: un nemico soltanto simbolico la cui identità empirica non interessa. Concludendo: in una riflessione durata per più di mezzo secolo Carl Schmitt, nonostante l'importante dissociazione fra il politico e lo Stato, resta nostalgicamente legato - come è dimostrato da tanti altri suoi lavori - alla realtà dello Stato moderno, per cui la vera politica è la politica estera che, nell'età classica dello jus publicum europaeum, sapeva relativizzare l'inimicizia internazionale. Ma è anche fedele all'impostazione iniziale, quando crede che - in ultima istanza - il vero sovrano, che ha il monopolio del politico, sia colui che decide lo stato di eccezione per fronteggiare il nemico: questo è possibile anche in uno Stato costituzionale quando è previsto - come nella Repubblica di Weimar - che ai vertici ci sia chi abbia questo potere di decisione per sospendere la validità dell'ordinamento giuridico al fine di fronteggiare un nemico esterno o interno.

b) Harold D. Lasswell
Harold D. Lasswell (1902-1979) è stato il grande protagonista del rinnovamento delle scienze sociali in America e quindi anche della scienza politica. Uomo di vastissima cultura, è riuscito a combinare in modo non sincretistico varie correnti del pensiero politico contemporaneo, dalla filosofia analitica alla rivoluzione comportamentistica, con una particolare attenzione all'informatica, per i simboli e i messaggi che essa trasmette. Per quanto riguarda la scienza politica i suoi punti di riferimento sono Marx e Freud, e soprattutto i teorici italiani delle élites. In questo campo Lasswell svincolò la scienza politica dai vecchi compagni di strada (la storia, la filosofia e il diritto pubblico) per saldarla alla psicologia sociale. Studiò insieme la politica interna e la politica internazionale: il loro punto di connessione è posto nel concetto di insicurezza - quasi la hobbesiana paura fisica - da cui nasce la politica. Egli è un teorico della politica, ma le sue definizioni servono soprattutto a costruire griglie per la ricerca empirica.
Dal suo saggio del 1936, dal titolo Politics: who gets what, when, how, all'articolo Politica per l'Enciclopedia del Novecento, pubblicato nel 1980, c'è una profonda continuità di pensiero, anche se gli arricchimenti successivi mostrano oscillazioni nella sua prospettiva. Il primo saggio ora ricordato introduce quattro termini: chi prende, che cosa prende, quando e come. Questa impostazione ha le sue radici nella teoria delle élites: infatti ci sono attori attivi e attori passivi, anche se, proprio in base a quella generale definizione, c'è poi una complessità o un pluralismo di élites, di fronte sempre a diverse maggioranze, che cercano di massimizzare i propri valori. I valori sono per Lasswell i fini o i desiderata dell'individuo. Egli ne indica principalmente tre: il potere, il benessere, la reputazione; ma questa indicazione non è esaustiva, dato che in taluni scritti ne indica altri, come il sapere e la libertà personale. La scelta di questi valori è in funzione della concreta ricerca empirica. La politica è allocazione dei valori: qui l'analisi di Lasswell diventa più complessa, proprio per la diversità di questi valori e per la diversità delle situazioni storiche.
Agli estremi di un possibile continuum possiamo porre il governo e il mercato, perché nell'allocazione dei valori ci sono aree statizzate e aree liberiste. Ma possono esserci anche aree intermedie che non conoscono il 'come' o il modo delle prime ma neanche delle seconde, sicché è necessario introdurre una nuova distinzione, quella tra autorità e persuasione. Nell'articolo per l'Enciclopedia del Novecento Lasswell dà, invece, una chiara definizione della politica, assai più restrittiva perché si tratta solo della politica del governo: essa è una allocazione imperativa dei valori o, per citare le parole dell'Autore, è una "presa di decisioni assistite da sanzioni nell'ambito di una comunità politica".Tuttavia nel processo sociale, di cui quello politico è soltanto una parte, si danno altre allocazioni di valori con sanzioni meno forti di quelle dello Stato, restando però fermo il punto che la politica può influenzare l'intero processo sociale con decisioni che modificano la condotta degli altri con la minaccia di sanzioni. Tuttavia anche le grandi unità produttive, le istituzioni religiose, i mezzi di comunicazione di massa prendono decisioni che sono politiche quando producono effetti sulla distribuzione generale dei valori nella società. Il risultato di questa pluralità di élites è che la politica è dappertutto, e non ha un suo campo particolare e riservato, quello del governo. Ma Lasswell, proprio per la sua costruzione di una rete concettuale che serva alla ricerca empirica, deve porre una radicale distinzione, quella fra potere e influenza, dove soltanto nel primo caso c'è un reale monopolio delle sanzioni che consente un reale potere di decisione e di coercizione.
La definizione più ristretta di politica finisce per consistere o scivolare in quella di potere: non per nulla una delle opere più importanti di Lasswell, pubblicata nel 1950, porta come titolo Power and society. La politica è sempre ridotta a un potere discendente, anche se - da democratico - Lasswell auspica un ampliamento del numero delle persone che partecipano alle decisioni importanti nello sviluppo del processo sociale. Ma sia nella definizione ristretta di politica o di potere che in quella ampia, questo fenomeno ci si presenta come un fenomeno discendente, tutto ancorato alla decisione, per cui la sola alternativa resta o subire o partecipare. Nel suo sistema politico ci sono gli outputs del governo e non gli inputs dei cittadini.A sistemare la nuova impostazione di Lasswell è stato David Easton (n. 1917) con il concetto di 'sistema politico' e con la definizione della politica come distribuzione di valori: in The political system, del 1953, c'è una pari attenzione sia agli inputs che agli outputs, sia alle sfide che alle risposte del sistema politico. Molti degli eredi di Lasswell si sono invece dedicati a studiare empiricamente solo gli outputs del governo, con il risultato che è scomparsa la politica, anche nel nome: al posto della politics c'è la policy, anche se Lasswell ha cercato di vedere le interazioni fra politics, policy e polity.
Ma se la vita politica dello Stato è ridotta alla politica interna delle allocazioni dei valori, allora è giusto parlare di amministrazione, anche se ora si è coscienti della politicizzazione dell'amministrazione. L'attenzione privilegiata verso lo studio delle policies corrisponde all'espansione dell'intervento pubblico nella società e nell'economia, e forse è il segno di una raggiunta stabilità democratica nella quale è scomparsa la politica. Significa però anche ridurre il problema della legittimità di un governo solo e soltanto alla sua capacità di garantire il benessere alla popolazione, come era nei fini degli Stati assoluti. Contro questa idea paternalistica ci si rivoltò in nome della cittadinanza. La fine della politica può essere soltanto un'illusione accademica.

c) Da Hannah Arendt a Dolf Sternberger
Hannah Arendt (1909-1975), allieva di Martin Heidegger, ha proceduto a decostruire il pensiero del maestro con le sue stesse categorie. Essa però non rompe soltanto con la tradizione metafisica, rompe con tutta la tradizione della filosofia politica europea (salva solo Tucidide, Machiavelli, Tocqueville), in quanto sussume l'esperienza politica sotto categorie filosofiche: Hannah Arendt nega, infatti, un qualsiasi primato della teoria sulla prassi, e così mette in questione concetti tradizionali che sono stati sempre collegati alla politica - come Stato, dominio, sovranità, rappresentanza - in quanto hanno radici nella metafisica. La filosofia politica occidentale ha obliato ciò che è veramente originario.Originario è l'essere dell'uomo nel mondo, che implica la coesistenza con il mondo e gli esseri che in questo mondo abitano. L'uomo non esiste, ma coesiste in uno spazio pubblico visibile e trasparente. In questa situazione l'uomo non ascolta l'essere, ma gli altri: la vita quotidiana non è banale se l'uomo è capace, partendo da questa sua situazione originaria, di ritrovare l'autenticità della vita proprio nell'azione o, meglio, nella prassi politica, una prassi basata sul discorso con il quale si comunica agli altri, in un mondo che è comune e che il filosofo non deve disprezzare.
Hannah Arendt presenta questo suo modo nuovo di pensare la politica in The human condition (1958) o Vita activa (nell'edizione italiana e tedesca), partendo dall'esperienza della πόλιϚ greca nella quale era netta la distinzione fra la sfera pubblica (ἀγοϱά) e la sfera privata (l'οἶϰοϚ, la casa), fra la politica e l'economia. Il mondo è caratterizzato non solo da una pluralità di soggetti, ma anche dalla fenomenicità e dalla contingenza legata all'irrompere del nuovo, che è sempre una 'nascita' dovuta all'azione, al discorso.In questo mondo dominato dall'incertezza e dall'instabilità, per definire la politica Arendt si fonda sul concetto di libertà e su quello di partecipazione. La libertà coincide con l'assenza del dominio, con l'assenza di una qualsiasi ἀϱχή: ciò consente - e qui è presente il motivo della partecipazione - all'uomo assieme agli altri uomini di creare un novus ordo contro il dominio ereditato dal passato - tema che sarà poi approfondito in On revolution (1963). In sintesi: la politica è azione discorsiva e, in quanto tale, è il momento più alto della vita activa, perché dà inizio al nuovo rompendo con la routine della passività umana e con la ciclicità della natura. Non è né violenza, né dominio, e in essa l'uomo dà un senso alla propria esistenza.Conviene sottolineare ancora un punto: in Vita activa, partendo dalla Politica di Aristotele, Arendt dice che il linguaggio caratterizza la politica, anzi, che è il linguaggio a fare dell'uomo un essere politico. Arendt è tornata sul problema nella sua ultima opera, The life of the mind (1978), in cui è chiara l'intenzione di rinsaldare il pensiero con l'azione tramite il "giudizio riflettente". Interpretando in modo piuttosto libero la Kritik der Urteilskraft di Immanuel Kant, Arendt vuole definire una razionalità pratica sottratta a ogni metafisica.
Il giudizio riflettente è svincolato dai comandi della ragione universale dei filosofi, perché è fondato sull'uso pubblico del proprio pensiero, cioè sulla comunicazione, che presuppone una pluralità di soggetti dato che richiede l'assenso degli altri: la verità comunicativa si basa su un mondo comune.Il pensiero di Hannah Arendt ha avuto una grande influenza: nel mondo inglese è apparsa un'appassionata Defense of politics (1962, 1964²) di Bernard Crick, che, professore di scienze politiche, non solo è un irriducibile avversario di Lasswell, ma anche degli accademici di scienze politiche per il loro linguaggio inutilmente tecnico: "Se un problema è d'importanza pubblica, deve essere trattato in modo intelligibile, sì che tutti possano comprendere: i governi incompetenti prosperano sul segreto; gli studiosi incompetenti su una terminologia pseudoscientifica".
Hannah Arendt ha poi influenza - ma minore - sia sui neoaristotelici americani sia sulla Rehabilitierung der praktischen Philosophie; si ha però la netta sensazione di ricadere nella vecchia 'filosofia' dei filosofi di professione, chiusi nel loro gergo tecnico: nella loro filosofia c'è alla fine la riduzione della molteplicità degli individui - categoria centrale nel pensiero della Arendt - in nome dell'unità, o a volte in nome del 'trascendentale'.
Unica eccezione è Dolf Sternberger (1907-1989), un non filosofo di professione capace di unire l'analisi del linguaggio alla storia delle idee, il quale dopo molti saggi è giunto a quella magistrale ricostruzione del pensiero politico occidentale che è Drei Wurzeln der Politik (1978), in polemica con Max Weber e Carl Schmitt.Sternberger, per scoprire il significato originario, o meglio il concetto sotteso alla parola politica, si rifà in modo più analitico ai testi aristotelici, nei quali sottolinea l'ἐπιστήμη πολιτιϰή, la concezione della politica come opposta alla tirannia (termine che in età moderna sarà sostituito da dominio), e mette in luce il governo misto, inteso come governo su uomini liberi. Ma l'opposizione categoriale fondamentale che regge tutta la sua analisi (non solo dei testi aristotelici) è quella fra unità e molteplicità: ma la molteplicità implica anche dissenso, conflitto, discordia, e non necessariamente un agire comune, che è l'aspetto rilevante della politica. Nella storia dell'Occidente si sono date altre forme di politica, con proprie specifiche strutture categoriali: alla forma greca, che egli chiama Politologik, si contrappongono la Dämonologik e l'Eschatologik. Con Machiavelli - il Machiavelli del Principe e non dei Discorsi - abbiamo l'emancipazione del tiranno e la politica intesa come dominio: tutta la successiva teoria dello Stato è dominata dal principio dell'unità, dall'esigenza di sopprimere le differenze, che generano conflitti. La Eschatologik è la trascrizione in chiave laica e immanentistica della teologia di Agostino, fatta dalle utopie rivoluzionarie: la fine dei tempi è posta su questa terra.
Anche in Sternberger c'è alla fine un elemento prescrittivo: riproporre la Politologik greca per le nostre società. Analizzando minutamente la Politica aristotelica egli mette a fuoco la costituzione mista: la πόλιϚ è certo una comunità di eguali nella cittadinanza, ma per la diversità dei ruoli e delle funzioni c'è una distinzione fra governanti e governati, fermo restando il principio che l'accesso alle cariche è libero a tutti: c'è una mistione di diversi modi di partecipare alla politica. Sternberger rielabora Aristotele facendo espressamente riferimento a Gaetano Mosca e al concetto di 'classe politica' e alla sua esigenza di combinare il principio aristocratico con quello democratico. L'ideale del governo misto è interno a tutta la storia del costituzionalismo, che conserva l'idea aristotelica di costituzione, una costituzione che riesce a mantenere al suo interno le diversità, le pluralità, ad armonizzare le differenze, senza ricorrere al dominio. È l'ideale del costituzional-pluralismo. Ma che cosa tiene insieme il tutto? È appunto la politica, una politica nutrita di prudenza, di ϕϱόνησιϚ. L'essenza della vera politica è così la pace, come l'essenza della pace è la politica. Non si tratta certo della pace a cui pensano i seguaci della Dämonologik o della Eschatologik, perché si tratta pur sempre di una pace provvisoria e instabile che non può non essere tale proprio perché vuole mantenere la pluralità, la diversità degli uomini. Come afferma Sternberger, l'unità è inumana, l'accordo è umano.

5. Considerazioni conclusive

Oggi, proprio nel momento in cui si evidenzia la crisi dello Stato, lo scienziato politico, che studi empiricamente il fenomeno della politica, non può trascurare le tre prospettive ora esposte; si tratta però di prospettive che hanno presupposti concettuali assai diversi e lontani per cui è estremamente difficile - se non impossibile - costruire su di esse una teoria generale della politica. Tuttavia una conclusione non può essere meramente descrittiva dei vari significati che la parola politica ha - nel suo uso inflazionato - nel linguaggio comune e nel linguaggio scientifico, ma deve, invece, contenere elementi normativi. Infatti, dietro l'apparenza della parola, usata in ogni campo del nostro vivere in comune, la politica è assente, sicché alcuni parlano di estinzione, di esaurimento, di entropia della politica.
Quello che ci deve mettere in allarme è che, con l'uso neutro di questa parola, si possa anche parlare della politica razziale di Hitler o della politica dei gulag di Stalin.
Ripercorrendo questa lunga storia nata con la πόλιϚ potremo fare due osservazioni. In primo luogo, il termine politico viene usato in riferimento sia all'azione (del πολιτιϰèον ζιῶον), sia a una retta costituzione (la πολιτεία dei Greci o la polity degli Inglesi). In secondo luogo, la parola appare sempre in grandi opposizioni: il πολίτηϚ greco non può vivere in un regime tirannico o dispotico; nel V secolo dopo Cristo è chiara la distinzione fra res publica e dominatus; nel Medioevo è netta e costante la contrapposizione fra principatus politicus e principatus despoticus; nei tempi moderni (da Locke a Kant) si distingue il potere politico dal potere dispotico e dal potere paterno; oggi si vede nel dominio l'assenza della politica. Se, in base alle esperienze della vita vissuta, vogliamo ridefinire e ricollocare la politica, dovremo partire dalla radicale distinzione dei Greci fra vita privata e vita pubblica, fra l'οἶϰοϚ e la partecipazione.
Nel nostro secolo l'autonomia della vita privata è stata rivendicata con forza dagli scrittori, prima da Thomas Mann e poi dai rappresentanti più radicali del dissenso sovietico, come Solženicyn e Sinjavskij. Thomas Mann con le Betrachtungen eines Unpolitischen vuole mantenere l'arte e la cultura libere dal politico, anzi mostra il disprezzo dello spirito per la politica che "rende rozzi, volgari e stupidi, e non insegna altro che invidia, spudoratezza e avidità". Sta sulla stessa linea, ma con una ben più tragica esperienza alle spalle, il dissenso degli scrittori russi, nei quali il rifiuto della politica assume le forme più radicali: essi rifiutano ogni strategia politica e vogliono soltanto dare una testimonianza autentica di se stessi. Infatti il dissenso nasce dalla riscoperta del linguaggio, nel quale l'individuo esprime autenticamente la propria esperienza vissuta, ignorando i codici linguistici del potere che sono soltanto 'menzogna'. Al potere oppongono - volutamente impolitici - la poesia, consapevoli inoltre che la verità nasce solo nel gulag.
La politica dovrebbe riguardare l'ambito pubblico, ma a causa della sua espansione oggi è sempre più forte la rivendicazione del diritto alla privacy. Nell'ambito pubblico, però, bisogna procedere a ulteriori distinzioni. In contrasto con il rifiuto della politica, che si è dato nei regimi totalitari, c'è oggi nei paesi democratici la nostalgia per la politica, per la politica che non c'è più, una politica che dia senso all'esistenza. Se la scienza politica è - come ha affermato Aristotele - la regina delle scienze, perché è la "più architettonica" (Eth. Nic. I 2, 1094a), dobbiamo ricollocare le diverse azioni umane negli spazi loro propri per ridare alla politica il suo spazio autentico. La ricchezza del mondo moderno, rispetto a quello greco, è che la nostra è una società a più dimensioni, nella quale più sfere devono coesistere con chiare distinzioni, senza che nessuna possa sopraffare l'altra: abbiamo l'arte, la filosofia, l'economia, la morale e la religione. La storia dell'Occidente, sempre densa di tensioni e di conflitti, consiste nel continuo tentativo di istituzionalizzare queste differenze, che hanno codici diversi. La politica può essere una sintesi solo se rispetta la diversità di queste sfere. Non per nulla - ricordando Machiavelli - non esiste la politica dove non esiste la libertà e il "vivere libero" coincide con il "vivere politico".
(V. anche, oltre Scienza della politica, sotto, Ideologia; Politiche pubbliche; Potere; Simboli politici; Stato).

 
 

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