Insegnanti nella scuola italiana tra progetti di riforme e lavoro quotidiano (Santoni Rugiu)

Prof. Santoni Rugiu – 29 marzo 2007

(intervento revisionato dall'autore)

 

Da un lato mi è molto facile, da un lato molto difficile parlare del ruolo dell’insegnante. Dovrebbe essermi molto facile perché in realtà mi occupo di questo argomento da un numero di anni tale che non vi dico quanti sono per non spaventarvi. Insegnavo nella scuola ai tempi delle scuole puniche, come dice il figlio della prof.ssa Sgherri, ho passate un po’ tutte le scuole secondarie, ma in partenza non è che mi interessasse più di tanto il lavoro didattico che vi svolgevo, anche se cercavo di farlo al meglio. I miei interessi privilegiati erano altri, fuori della scuola. Mi occupavo di radio, di cinema, di teatro e dell’allora nascente televisione. Poi, per esperienze associative (la partecipazione al Movimento di educazione civica, MCC, al Movimento di Cooperazione educativa, MCE, ai Centri di avviamento all’educazione attiva, CEMEA) per altre più politiche (l’esperienza nella Commissione scuola del Partito socialista) sono stato indotto a occuparmi degli insegnanti e ad avere incarichi in un sindacato insegnanti., anzi per la verità, siccome venivo da una provenienza di un partito allora schierato a sinistra e rappresentavo gli insegnanti di sinistra, per prudenza mi avevano subito addetto agli ausiliari, agli aiutanti tecnici, che tuttavia mi hanno aperto sulla scuola una finestra, una aperçue come dicono i francesi, un punto di vista che altrimenti non avrei mai avuto, mostrandomi il fascio delle diverse influenze educative della scuola che non si esauriscono nel rapporto docente-alunno.

Mi incuriosì però soprattutto la figura dell’insegnante e sapere come fosse nato il professore di scuola secondaria (qualifica che non trova riscontro in altre lingue perché, per esempio, nei paesi ispanici, il maestro elementare si chiama professore e invece dalla scuola secondaria in su l’insegnante, compreso quello universitario, si chiama maestro. Il titolo di “dottore” è riservato anche e lì, come nei paesi anglosassoni, al doctor, agli scienziati, o quanto meno ai potenziali scienziati). Allora cominciai a interessarmi della figura dell’insegnante, da un punto di vista storico: la mia ottica era già quella dello storico dell’educazione. La prima scoperta fu che l’insegnante di scuola secondaria aveva acquistato una certa importanza soltanto nell’800, perché nella scuola dei secoli precedenti, l’insegnante era valutato molto meno dell’importanza di ciò che si insegnava, trionfando dall’epoca ellenistica la cosiddetta “teoria della disciplina formale” per cui ciò che valeva, ciò che si riteneva dotato di vera efficacia formativa erano i contenuti dell’insegnamento, non tanto la bravura didattica della persona che li trasmetteva. Si veda ancora l’esempio dei gesuiti che nel sedicesimo secolo introdussero una vera rivoluzione, non solo nella scuola secondaria ma in tutta la cultura pedagogica, con i loro fasti e nefasti, nei loro prestigiosi collegi assegnavano all’insegnamento quelli di loro meno dotati, perché i più bravi, i più dotati li facevano predicatori o confessori di qualche principe o di un re, in modo da orientare la politica, un po’ come in altre forme avviene ancora oggi.

Altri li mandavano missionari in terre lontane dove mettevano a frutto la loro la loro straordinaria capacità di apostolato nelle situazioni più difficili e ostili. Quelli che non avevano nessuna di queste doti spiccate, erano destinati ad insegnare nei collegi. Per aiutarli, esisteva la famosa Ratio studiorum gesuitica che descriveva punto per punto minuziosamente ciò che si doveva insegnare e come e quando, non c’erano scappatoie. L’insegnante correva come su un binario, doveva solo stare attento a non deragliare. Era più che altro un macchinario programmato per una certa funzione. Ben poco di nuovo e di originale si lasciava all’insegnante, al di là del suo ruolo di esecutore di istruzioni precise e inderogabili.

Dato che la maggior parte delle scuole era in mano agli ecclesiastici, le pochissime scuole pubbliche seguivano lo stesso format gesuitico, l’insegnante sempre contava poco. Infatti anche per questo motivo il mestiere dell’insegnante, fin dall’antichità è sempre stato pagato male. Tra gli insegnanti di retorica romani e greci, soltanto pochi avevano grande prestigio e conseguivano consistenti guadagni, perché formavano gli oratori, cioè gli uomini destinati a gestire il potere pubblico. Ma i maestri di grammatica e, peggio, quelli che insegnavano i rudimenti del sapere godevano di un basso prestigio sociale e di compensi modesti, quando non miseri: Le cose non migliorarono di molto quando Vespasiano volle in certo modo statalizzare la professione dell’insegnante.

Solo grazie all’illuminismo e alla rivoluzione culturale che ne conseguì, anche per le contemporanee prime spinte della nascente società industriale, alla fine del Settecento sorge il moderno problema dell’insegnante. Come dicevano i francesi, prima dell’800, tant vaut le maitre tant vaut l’école, in parole povere : la scuola vale quanto vale l’insegnante che la fa. Non può esistere una buona scuola in mano a insegnanti poco validi. Era un bel passo avanti: ma la professionalità dell’insegnante era ancora ben lungi dall’occupare un posto preminente. Il problema dei contenuti restava naturalmente importante, ma in qualche modo sussidiario alla bravura dell’insegnante. E qui nacque una nuova misura che tuttavia tardò moltissimo ad affermarsi pienamente. Voglio dire che neppure ai giorni nostri si è ancora affermato del tutto il concetto che la bravura dell’insegnante, non è tanto nella qualità delle conoscenze che possiede, che comunque devono esserci e buone, e nemmeno tanto nella capacità di connettere per sé le questioni del sapere in astratto, ma nella capacità di comunicazione in rapporto alle possibilità di ricezione degli alunni. Si può affermare che un insegnante molto bravo, molto comunicativo, anche se non adotta tecniche di persuasione più o meno occulte sfruttate oggi dalla pubblicità, cura l’organizzazione di un discorso, anche di un discorso didattico, prima di tutto calibrandolo su chi riceve questo ascolto.

Se la comunicazione didattica non è recepita, o è recepita male, secondo questo modello l’insegnante non è veramente bravo. Il vero insegnante non è soltanto colui che sa la materia insegnata, piuttosto colui che la sa meglio insegnare. In altre parole, la bravura dell’insegnante si giudica negli alunni. Già questo, se fosse già stato ben chiaro a tutti, ci avrebbe da tempo dovuto portare in Italia a prendere più seriamente il problema della formazione degli insegnanti primari e secondari. Gli altri paesi europei ed extraeuropei, si sono posti questo problema e l’hanno risolto sin dalla seconda metà dell’800; i paesi anglosassoni, l’Inghilterra, gli Stati Uniti primi del ‘900 avevano già in funzione i Teachers colleges, istituzioni di grado universitario ma autonomi rispetto alle facoltà, riservati alla formazione dei docenti per i diversi livelli di scuola e per le diverse discipline.

Le nostre facoltà universitarie non hanno mai avuto cura della formazione degli insegnanti. La prima ipotesi di una scuola che formasse gli insegnanti si ha dopo l’unità d’Italia. Il ministro Francesco. De Sanctis pensò che si dovesse fare come in Germania o come in Francia nell’Ecole normale, cioè delle scuole destinate proprio alla formazione e fondò a Pisa la Scuola normale superiore, la quale però fallì in breve, perché poteva accogliere pochi aspiranti insegnanti mentre il fabbisogno era elevatissimo e il gettito che quella scuola poteva dare era di poche decine, una goccia nel mare, quando invece l’apertura di tante centinaia di scuole su tutto il territorio del regno d’Italia, avrebbe richiesto decine di migliaia di nuovi insegnanti. Ma fallì anche come scuola normale perché i suoi docenti erano docenti universitari .

Così pure fallirono le cosiddette “Scuole di magistero” esistenti dal 1874 presso le facoltà di Lettere e di Scienze, in pratica corsi facoltativi di didattica per gli studenti che dopo la laurea si proponessero di insegnare nelle scuole secondarie. Ma erano basate sullo stesso vizio d’impostazione della Normale pisana: agli studenti aspiranti professori in quei corsi di formazione professionale specifica si insegnava ciò che era già stato insegnato nei curricoli dei diversi corsi di laurea, quasi come un ripasso svolto dagli stessi cattedratici o dai loro assistenti. Allora questo tipo di formazione si contraddiceva da sé. Quasi come un ripasso o un primo approfondimento di ciò che si è già studiato senza alcuna attenzione alle problematiche dell’apprendimento da parte degli alunni dei ginnasi-licei o degli istituti tecnici. Inoltre, le Scuole di magistero non ebbero lunga vita, anche perché non rilasciavano alcun titolo legalmente valido per i concorsi, ma solo un attestato finale di frequenza.

La Scuola Normale di Pisa invece non chiuse come chiusero le Scuole di magistero, ma cambiò presto lo scopo: non formazione degli insegnanti, ma degli studiosi, dei ricercatori. E questo fa ancora oggi egregiamente,però non formano insegnanti,. I docenti di didattica dei corsi che formano professionalmente gli insegnanti delle varie discipline insegnate a scuole, è bene che approfondiscano e facciano sperimentare la metodologia, il modo di concretizzare il loro sapere, e per questo possono essere utili anche seminari di discussione teorica con specialisti che insegnano all’università, ma non esauriscono affatto la vera preparazione di un futuro docente, perché il professore universitario, salvo eccezioni, è l’ultima persona adatta a formare gli insegnanti secondari, in quanto generalmente portatore inconsapevole del motto gentiliano “chi sa, sa anche insegnare”. Ma non è vero: si può essere pozzi di scienza e non sapere spiegare i passaggi più semplici e soprattutto non sapere suscitare il gusto per lo studio di questa o dell’altra disciplina e, viceversa, farla odiare precocemente. Chi sa, ha certo ottimi requisiti per essere un buon insegnante, ma non lo è ancora del tutto. Si può essere coltissimi nella biologia umana, essere un cannone in laboratorio per la ricerca giovani e poi non riuscire a comunicare ai ragazzi il fascino di certi studi e di certe scoperte. Uno studioso e un ricercatore eccellente non sempre sono buoni docenti, specie a livello secondario, se non sanno trasmettere il sapere e il piacere di conquistarlo nella forma dovuta a ragazzi preadolescenti e adolescenti.

Questa differenziazione esistente tra lo specialista di una materia e un insegnante che insegna la stessa materia, ovvero fra studioso e insegnante, noi non l’abbiamo ancora tutti accettata. Perciò non diamo una considerazione soddisfacente alla attività didattica. Qualche anno fa è nata la SISS, Scuola per la “specializzazione” ovvero per la formazione di insegnanti scuola secondaria, che ha avuto il grande merito di rompere un’inerzia che durava da centocinquanta anni circa, affrontando finalmente il problema della preparazione professionale dei professori secondari, però secondo me ha gli stessi difetti della scuola Normale di Pisa e delle vecchia Scuole di magistero preso le facoltà, di cui ho già detto. È finita anch’essa in mano dai docenti universitari. Così il professore di letteratura italiana, poniamo, specializzato, che conosce a menadito tutta la Divina Commedia e le altre opere di Dante nonché tutti i relativi commenti, agli studenti della SISS parla ovviamente di Dante, ma non sussidia l’aspirante insegnante di alcuni accorgimenti meno dotti ma più efficaci per presentare il poeta nella scuola secondaria, e poi dimentica che nei programmi scolastici esistono tanti altri autori studiati a scuola in un contesto completamente diverso, con gli studenti, che possono essere anche vocazionalmente diversi da quelli universitari e seguono un curricolo che ha tutt’altra logica e finalità.

Anche supposto che le SISS fossero una struttura positivamente funzionante e adeguata allo scopo, avrebbero adempiuto solo a una parte del loro compito, solo ad una parte della loro funzione istituzionale, perché oggi la formazione non può essere risolta una tantum e solo preliminarmente all’inizio della propria formazione. Poteva andare bene in una visione ottocentesca, quando la scienza, la ricerca, la tecnologia stessa si sviluppavano a ritmi talmente lenti da essere quasi statici, come era nella società precedente la rivoluzione industriale o poco più. Un medico che avesse imparato le nozioni di patologia e di clinica a venticinque anni, aveva buone garanzie di non aver bisogno di aggiornamento per tutta la sua attività professionale in campo sanitario. Ma oggi che nel giro di dieci anni si sconvolge e si rinnova il sapere medico, le tecnologie chirurgiche e diagnostiche, le applicazioni terapeutiche che richiedono, più che un aggiornamento, una riqualificazione. Cosa ne sarebbe di quel medico generale o specialista che non sentisse la necessità di riciclarsi almeno una volta ogni dieci anni? Per l’insegnante è la stessa cosa, c’è un’evoluzione nel ruolo dell’insegnante, sempre più si richiede da lui, molte nuove responsabilità gli si attribuiscono (basta pensare ai decreti Moratti ), in una parola si chiede sempre più senza che si sia pensato a offrirgli una preparazione adeguata. Purtroppo gli insegnanti italiani hanno a che fare con il Ministero della Pubblica Istruzione ( qualcuno l’ha chiamato della “pubblica distruzione”). Quel ministero nacque nel 1846, due anni prima dello statuto albertino, era ed è sempre rimasto, malgrado alcuni ritocchi innovativi, un organismo giuridico-amministrativo che procede per via burocratica:, tiene aperte le scuole, ne apre, le accorpa, le organizza, stabilisce la carriera giuridico-ecomomica degli insegnanti, stabilisce certi parametri, appunto, di carattere giuridico-amministrativo. Non ha l’attrezzatura, non ha la forma mentis. Oggi penso che il problema cruciale e centrale della valutazione sia molto cambiato. La logica dell’insegnamento che era selettiva, oggi è diventata anche troppo permissiva, assolutoria. Anche questo è un capovolgimento che l’insegnante ha vissuto nella scuola, cambiamento che non è stato fornito di nessuna capacità, di nessuna sensibilità nuova per farvi fronte. Quando si legge che negli esami di maturità, anche di quest’anno, esistono dei candidati con dei debiti formativi non assolti e che possono fare l’esame, il che equivale a dire che hanno già la maturità in tasca. Il ministro Fioroni, si dice, toglierà questa assurdità, ma lo fa con bisturi molto lento e leggero. Ma, si badi bene, a fronte del dogma “tutti a scuola”, c’è, preoccupante, l’alto numero degli abbandoni precoci e poi l’alta percentuale dei diplomati secondari e dei laureati che non trovano occupazione. Allora la selezione si è solo ritardata: ma selezionare un ventenne o un venticinquenne è peggio che selezionare un quindicenne.

La scuola selettiva dei tempi di don Milani, di Lettera a una professoressa e quella della contestazione sessantottina, oggi è completamente diversa. Allora un insegnante sapeva che doveva entrare nella logica della selezione. Oggi se uno si permette, non dico di bocciare, ma valutare negativamente, viene richiamato in modo acceso dai genitori dai dirigenti scolastici. Quindi, la mia speranza di vecchio, testardo osservatore del divenire della scuola e dell’insegnante è che gli insegnanti riescano a prendere in mano la scuola, che formino una associazione che gestisca la formazione e l’aggiornamento dei più giovani colleghi, sempre tenendo conto che ogni soluzione pedagogico-didattica è e lo sarà sempre più domani in continuo divenire. Capisco le difficoltà, capisco il quoziente utopico di ciò che dico, ma questa è la mia speranza e credo che non esista nessun altro ente o altro gruppo professionale che possa assumersi oggi questo carico. Credo di aver già detto molto e vi ringrazio.