Possiamo ancora cambiare? (Olivetti Manoukian)

L’esperienza del fare tra teoria e pratica

Il cambiamento nella relazione educativa

 

 

Franca Olivetti Manoukian – 29 marzo 2007

(intervento revisionato dall'autore)

 

 

E’ un po’ difficile per me parlare dopo il prof. Antonio Santoni Rugiu, un maestro, una persona tanto famosa per tutto quello che ha dato e che ha fatto nella scuola e per la scuola. Io non ho mai lavorato all’interno della scuola, non sono un operatore, né uno studioso della scuola e mi sento abbastanza “eccentrica”. Mi viene in mente il titolo di quel libro di Bruce Chatwin “Che ci faccio qui?”… ci faccio qualcosa perché sono – o forse vorrei essere - appunto come Bruce Chatwin un viaggiatore curioso e interessato a quello che succede in tanti luoghi diversi della società per cercare di capire in che mondo viviamo e come ciascuno di noi si colloca o può collocarsi.

Ringrazio molto gli organizzatori di questo convegno, Lucia Marchetti anche per gli apprezzamenti lusinghieri che ha espresso nei miei confronti ( e che non merito senz’altro). Ho una formazione di base di tipo sociologico e come consulente e formatrice, nell’ambito di un istituto che ho fondato circa trent’anni fa con altri colleghi (Studio APS), mi occupo del funzionamento delle organizzazioni e delle difficoltà che hanno le persone nelle situazioni organizzative. Ho lavorato all’inizio con aziende e in seguito con i servizi sociali e sociosanitari: con la scuola ho lavorato pochissimo. Propongo quindi delle riflessioni che vengono da uno sguardo limitato e parziale. Mi è piaciuto che la rete delle scuole che si occupano di Scienze Sociali sia stata chiamata “Passaggi”. Mi ha ricordato quel testo di Walter Benjamin che parla dei “passages” che sono stati costruiti a Parigi nel secolo scorso per mettere in comunicazione grandi vie: erano spazi che attraversavano interi caseggiati, prendevano luce dall’alto con ampie vetrate, erano arredati con ricercatezza, con marmi e bei negozi; costituivano un mondo in miniatura, un mondo in cui poteva passeggiare il flâneur una figura con cui mi identifico abbastanza, perché è colui che è attirato da quanto vede e guarda intorno a lui anche se non lo afferra e non lo padroneggia subito; non si lascia confondere nella folla anonima ma si sposta inquieto, senza affannarsi, seguendo il ritmo dei propri pensieri, delle proprie emozioni, può sostare senza fermarsi, può stare senza isolarsi, può errare per apprendere.

E’ in questo spirito che vi porto le riflessioni che sono in grado di sviluppare rispetto al titolo che mi è stato assegnato e che evidentemente sono molto marcate dall’impatto che ho avuto con le situazioni scolastiche con cui mi è capitato di lavorare in questi ultimi anni.

Vorrei proporvi una riflessione su questi tre punti.

  1. Il primo punto è il cambiamento, o forse meglio i cambiamenti: il titolo del mio intervento “possiamo ancora cambiare?” è stato preso dal titolo di un’intervista fattami, uscita su Animazione sociale, nella quale mi era stata posta questa domanda per esplorare che cosa accade agli operatori dei servizi socio-sanitari, sociali, educativi, assistenziali in un momento in cui vengono denunciati molti malesseri e vissuti di crisi. Per gli insegnanti non so bene a che cosa corrisponda.
  2. il secondo punto sono le attese che le persone portano nelle situazioni lavorative: propongo delle ipotesi rispetto a quello che gli insegnanti oggi si aspettano nello svolgimento della loro attività e ai riscontri che di fatto hanno nei contesti micro e macro-sociali.
  3. il terzo punto affronterà la questione dei rapporti che si sviluppano nelle situazioni lavorative e che secondo me sono così difficili da vedere e da considerare all’interno della scuola.

I cambiamenti

Una prima ipotesi che propongo è che all’interno della scuola sia molto difficile collocarsi rispetto al cambiamento più generale del contesto sociale, ai cambiamenti epocali che sconquassano e travagliano la nostra società italiana e occidentale. Mi pare che si pensi al cambiamento in modo molto legato all’attività che si svolge, che lo si consideri entro la relazione educativa (almeno per quel che ho colto leggendo i vostri materiali) e quindi ci si rappresenta il cambiamento come interno, intrinsecamente connesso a processi interindividuali. Mi sembra che per gli insegnanti sia difficile rappresentare la propria attività, il proprio lavoro e l’esercizio del proprio ruolo nelle situazioni organizzative ed organizzate tenendo conto dei cambiamenti enormi che stanno attraversando il contesto sociale. In alcune iniziative di formazione che con alcuni colleghi stiamo facendo in questo periodo, una delle prime domande che poniamo agli insegnanti riguarda la descrizione, l’analisi del contesto lavorativo. Perché per accompagnare le persone nell’acquisizione di maggiori competenze professionali partiamo dal richiamare l’ attenzione al contesto? Perché se il lavoro non è mera esecuzione di procedure o di operazioni meccaniche su materiali predisposti per arrivare a prodotti standardizzati, richiede di collocarsi entro microcontesti relazionali che sono continuamente influenzati e marcati da quanto circola nel contesto più ampio.. E in una società che cambia in modo accelerato e vorticoso, non possiamo dare per scontate le interazioni tra il micro e il macro. Ora gli insegnanti descrivono il contesto lavorativo attraverso narrazioni o attraverso griglie analitiche che mettono in primo piano il singolo. Per descrivere il contesto si parte da se stessi : “io sono questo”, “sono un’insegnate curricolare, mi occupo da sempre di disagio”; “dopo nove anni di attività come insegnante di sostegno di area umanistica, torno a insegnare la mia materia…”; “Intanto il mio ruolo: sono stata per anni referente per l’educazione alla salute e la promozione del benessere nella mia scuola….”; “sono insegnante di inglese, quindi una delle insegnati del team docente; personalmente non ho avuto un mandato da colleghe per occuparmi di..”

Cito queste verbalizzazioni perché mi sembrano degli indizi che mettono in luce come il primo movimento che da parte di questi insegnanti si tende a fare è quello di portare all’attenzione degli altri se stessi e da lì eventualmente sottolineare delle difficoltà di rapporto con quello che accade all’esterno, con il contesto. E’ molto diverso dal vedere il contesto e se stessi nel contesto. E’ ben diverso mettere l’accento sul microcosmo individuale e interindividuale e da lì vedere che cosa succede fuori oppure, decentrandosi dalla propria collocazione, considerare innanzi tutto quello che si agita nel contesto più generale, che cosa lo caratterizza e come io mi colloco rispetto a questo, come lo interpreto. Nel contesto sociale più in generale sono oggi in atto dei cambiamenti molto, molto consistenti, cambiamenti di tipo demografico, economico, tecnologico, istituzionale, sopratutto culturale, che irrompono nella nostra quotidianità di vita e anche nelle situazioni scolastiche con grande forza, con grande violenza: sono cambiamenti che sconquassano, scompigliano, scombussolano il lavoro che fanno gli insegnanti, lo svolgimento delle varie attività scolastiche, premono e inquietano e sono anche all’origine, credo, di varie difficoltà che molti insegnanti hanno a collocarsi nel loro lavoro. Richiamo soltanto qualche esempio per dare maggiore concretezza a quello che sto affermando. Uno dei cambiamenti secondo me più consistenti con cui abbiamo a che fare nella nostra società riguarda la possibilità di vivere in una situazione sicura e tranquilla. Per le popolazioni del mondo occidentale la sicurezza è da decenni sinonimo di progresso; è collegata all’aver sconfitto le povertà endemiche, le epidemie, ma anche i soprusi dei signorotti locali, dei briganti, le lotte intestine…; è forse ancor più ricondotta al poter avere per ampie fasce di popolazione fonti di reddito e di lavoro sufficientemente garantite, spostando l’occupazione dall’agricoltura all’industria…; è sancita nei diritti tutelati dalle carte costituzionali….Credo sia sufficientemente condivisibile che per tutti la sicurezza sia un elemento apprezzato e ricercato con grandi investimenti.

Ebbene negli ultimi anni nella nostra vita vediamo accrescere i rischi, aumentano le incertezze (un famoso libro di Ulrich Beck “La società del rischio” lo ha illustrato con argomentazioni straordinariamente efficaci); viviamo sempre di più in situazioni che non sono prevedibili, rispetto alle quali non sappiamo cosa succederà; abbiamo molte, molte difficoltà a cogliere delle informazioni attendibili, a riuscire a immaginare che cosa avverrà anche tra pochi mesi rispetto alla condizione lavorativa, alla salute, alle decisioni amministrative, ecc. e ciononostante è sempre più forte la ricerca di sicurezza, la ricerca di essere tranquilli, di non avere troppi pensieri, di non avere troppe preoccupazioni, di essere rassicurati rispetto al proprio domani. A me sembra che questa ricerca di sicurezza sia molto forte un po’ a tutti i livelli e che sia anche continuamente minacciata dalle incertezze a cui ho già accennato e in particolare dal senso di perdita che si va sempre più diffondendo rispetto alla propria condizione sociale. La generazione che oggi ha un’età media rispetto alla generazione precedente ha realizzato e percorsi di ascesa sociale notevolissimi. Che cosa questa generazione può promettere alle generazioni future, che cosa vede per i propri figli? vede un futuro roseo? Vede un futuro tranquillo? Vede un futuro promettente? Sembra proprio di no. E forse gli insegnanti e la scuola sono ancor più direttamente esposti alle insicurezze che i genitori hanno rispetto ai modelli educativi, rispetto all’impostazione educativa in cui loro sono cresciuti e che viene considerato non più percorribile: la repressione, l’autoritarismo non vanno più utilizzati e allora a che cosa ci si può rivolgere? Più si sentono insicuri , più pretendono scuole “sicure”, che garantiscano una buona educazione e istruzione ai figli e che non aggiungano ulteriori motivi di angoscia a quelli che già hanno per il lavoro, per i rapporti familiari, per le competizioni e le spinte al successo, a cui non ci si può sottrarre. Forse non è un caso il ricorso crescente alle scuole private, spesso religiose… sembra che diano più garanzie. Alcuni presidi mi hanno raccontato che “bisogna chiamare la polizia”. Non credo sia una scelta tranquillizzante per i genitori. E da parte loro i genitori si danno da fare (quando non si sa che fare, spesso ci si dà da fare), moltiplicano le iniziative laterali, le attività intorno alla scuola dei figli. Nel ceto medio c’è la corsa alla ginnastica, lo sport, al tempo libero di tutti i generi, ai corsi di lingua e di musica, è come se non bastasse mai quello che si fa. Ma perché non basta mai? Perché non si è mai sicuri di quello che si fa e fra l’altro tutti questi investimenti che si fanno per cercare maggiori sicurezze, accrescono le disparità sociali perché alcuni si possono permettere una serie di interventi laterali, interventi di maggiore controllo nei confronti dei figli,altri non se lo possono permettere. Se si accrescono le disparità, aumenta a livello sociale la disuguaglianza, la reattività, la violenza, le insoddisfazioni e quindi aumenta l’insicurezza.

Un’altra componente importante dei cambiamenti più generali (che credo abbia influenza notevole per la quotidianità a scuola) è la spinta molto forte all’affermazione individuale. Molti segnalano che viviamo in un’epoca di individualismo esasperato, ma non mi addentro in disquisizioni su questo tema/problema. Resto su un piano più esperienziale, quello che è alla portata della riflessione sul nostro microcosmo quotidiano. Credo che ognuno di noi possa constatare come sia diffuso l’imperativo a farsi strada, a farsi la propria strada. Ciascuno deve riuscire; ogni individuo, ogni soggetto è chiamato a realizzarsi con successo sull’esterno o con soddisfazione per se stesso; è un dovere essere se stesso. In un libro interessante, Alain Ehrenberg, uno psicoanalista francese ha ricostruito la storia delle depressioni negli ultimi tre secoli e è arrivato ad affermare che la depressione oggi è la fatica di essere se stessi, perché non si è mai non solo quello che si vorrebbe essere, ma anche quello che si dovrebbe essere, cioè essere cittadini adeguati a quello che la società propone come modello di riuscita, di successo, di realizzazione di sé. Da qui molto spesso quello che le persone vivono come bisogno, viene richiesto come diritto. Che cosa è un bisogno? La parola rimanda ad una esigenza fisiologica, ma molti bisogni di sui si parla nella nostra società, non hanno nulla di fisiologico. A volte mi domando se non venga affermato un bisogno come quello di essere felici, che è proprio ben lontano dal poter essere soddisfatto. E comunque si usa questa parola per dare forza alle richieste che si avanzano e talvolta si arriva anche ad una sorta di equazione secondo la quale i bisogni sono diritti, che devono essere tutelati, garantiti da un’istanza pubblica, superiore ed esterna. Tutto questo porta al fatto che da parte dei singoli le attese nei confronti di coloro che nelle loro collocazioni istituzionali sono depositari delle risposte- e gli insegnanti sono tipicamente in questa posizione - diventano pretese, cioè attese che devono essere soddisfatte prima di ogni altra, più di tutte le altre con intensità e compiutezza. Questo rende molto difficile l’interazione tra cittadini e istituzioni, fra cittadini e operatori, fra cittadini e insegnanti, a tutti i livelli.

Terzo elemento che segnalo rispetto ai cambiamenti del contesto più generale - lo ha ben sottolineato il prof. Santoni Rugiu - è la iper - accelerazione di tutto quello che succede nella nostra società. Tutto ha dei ritmi molto veloci. Ma la scuola dov’è? nella scuola mi viene spesso detto che ci sono tempi biblici per ogni delibera, ogni atto amministrativo o procedura a cui non ci si può sottrarre. La scuola ha forse un cattivo rapporto con il tempo e soprattutto con il tempo così come è nella società, cioè un tempo ipercompresso, iperaccelerato, in cui tutte le cose sono già successe prima ancora di scoprirle, prima ancora che siano capite.

Concludo rispetto al primo punto. Ho essenzialmente proposto degli esempi, degli indizi, degli elementi parziali , ma spero anche per voi evocativi per arrivare a dire questo: mi sembra che per la scuola e per gli insegnanti che in essa lavorano, ci sia difficoltà di collocarsi in un contesto, di cogliere i cambiamenti che ci sono nel contesto e da qui di “vedere”, di rappresentarsi, di rendere presente che la scuola ha perso la sua centralità di istituzione che può trasmettere il sapere, garante della socializzazione del sapere presso le nuove generazioni.

Intorno alla scuola molte, varie agenzie influiscono molto di più della scuola sul sapere che si costruiscono i giovani. Credo che per ogni individuo che vive nella nostra società ci siano esigenze di apprendere anche in tempi molto rapidi delle competenze, anche per poter sopravvivere nei confronti di tante sollecitazioni contraddittorie che arrivano da tutte le parti. In modo affannoso, esasperato, spesso attraverso allineamenti conformistici, dipendenze anche ingenue, scissioni, ricerche di appartenenza… le famiglie, i ragazzi, i gruppi, si costruiscono delle competenze. In questo quadro movimentato e caotico la scuola che parte ha? che posizione prendono ad esempio gli insegnanti rispetto a tutto quello che succede su internet?

Mi raccontano che molti ragazzi per la ricerche che fanno in classe vanno su internet, portando poi dei contenuti o degli elaborati da “mettersi le mani nei capelli”. Bene! Non credo che sia ragionevole demonizzare internet; credo piuttosto che ci si possa interrogare su come gli insegnanti raccolgono, ascoltano l’iniziativa dei ragazzi,. con quali criteri interagiscono con questa realtà, con quali prefigurazioni, con quali supporti, con quali indicazioni, con quali aperture, con quali possibilità di interazioni, di dialogo….

Abbiamo un contesto che è in grande cambiamento. C’è bisogno di riflettere su come la scuola si colloca rispetto a questi cambiamenti e/o come li acquisisce quando irrompono con grande intensità. Fra l’altro questo discorso del contesto è molto evidente nella tanto auspicata progettualità “scuola – territorio” rispetto alle situazioni di disagio più e meno visibile. Qui ci sono divisioni e chiusure che si constatano ogni giorno perché i servizi continuano a rimandare le difficoltà dei bambini e dei ragazzi all’interno della scuola, mentre nella scuola si pensa che i servizi dovrebbero prendere in carico più vigorosamente, fornire diagnosi e linee di condotta, ecc.. Quando ci si attesta su queste posizioni tutto diventa molto difficile.

Le attese e la costruzione dell’identità professionale

Affronto il secondo punto su cui volevo richiamare la vostra attenzione. Le attese: perché mi pare interessante fermarsi sulle attese che i singoli e quindi anche gli insegnanti che lavorano all’interno della scuola, portano nelle situazioni lavorative? Perché la realizzazione del lavoro è molto collegata a quello che noi ci aspettiamo di ottenere in cambio di quello che offriamo, che mettiamo a disposizione, rispondendo alle richieste, alle aspettative che l’organizzazione e gli altri in genere hanno nei nostri confronti. Nei grandi cambiamenti l’incontro tra quello che gli altri si aspettano dal nostro lavoro e quello che noi ci aspettiamo ci venga riconosciuto, è molto complicato e squilibrato, fonte di insoddisfazioni e sofferenze, di conflitti e fraintendimenti.

Dalle organizzazioni lavorative in cui prestano la loro attività ,normalmente i singoli si aspettano di ricevere una retribuzione che certo vorrebbero adeguata e che spesso constatano insufficiente….Quanto più il contenuto del lavoro è immateriale e quindi poco misurabile con parametri esterni tanto più è difficile sentirsi ben retribuiti, ma è anche difficile perché le attese non riguardano soltanto una componente monetaria o monetizzabile: riguardano il riconoscimento di sé. Si chiede alla situazione di lavoro in cui si è collocati di avere dei riscontri positivi di quello che si fa , per poter avere delle conferme, delle risposte all’interrogativo esistenziale “chi sono?” . Non ho molto tempo e porto queste affermazioni in modo un po’ brutale. Spero di non essere fraintesa. In una società dinamica, in cui sono aperte molte opportunità, ma anche molti rischi l’identità non è più garantita dalla collocazione entro un gruppo sociale, dall’appartenenza a un ceto, ad un’istituzione, a una professione, a una famiglia. Le situazioni lavorative sono spazi in cui i singoli cercano conferme della propria identità lavorativa, e da lì identità sociale e personale, perché il lavoro è tuttora un ambito importante. E la ricerca di conferme è un’esigenza che dura tutta la vita perché è connessa alla costruzione della propria identità professionale e personale. Tradizionalmente all’interno della scuola la costruzione dell’identità professionale è stata mantenuta e sostenuta attraverso la proposta di modelli e di percorsi di adeguamento, di interiorizzazione di questi modelli. Come diceva il prof. Santoni Rugiu, sono stati proposti modelli di insegnanti eccellenti, bravi, non solo e non tanto perché conoscono la materia, ma perché sanno insegnare, insegnanti che hanno prerogative umane e competenze relazionali in grado di sviluppare una comunicazione intensa e significativa, fondamento di ogni apprendimento.

Di fronte a un modello di questo genere, gli insegnanti non possono non avere grosse difficoltà a riconoscere debolezze e mancanze. Riconoscere fragilità rispetto a questo modello eccellente equivarrebbe a sentirsi incapaci di essere e fare gli insegnanti. Ma in realtà oggi è inevitabile che si vivano moltissime fragilità perché sono venuti meno alcuni collegamenti centrali tra modello identitario e identificazioni, processi di identificazione che portano ad acquisirlo e rafforzarlo. Per costruire la propria identità, ciascuno di noi individua delle figure, delle persone della famiglia, persone vicine o più lontane che diventano dei riferimenti centrali, che si interiorizzano, dei modelli anche “ideali” a cui si vorrebbe assomigliare, perché si ammirano, perché ci si riconosce positivamente nei loro atteggiamenti….Ciascuno cresce e si realizza attraverso delle identificazioni che contribuiscono a formare e a rafforzare la propria identità. Con chi oggi possono identificarsi gli insegnanti nella costruzione dell’identità professionale? Con i loro insegnanti, a cui forse si sono inizialmente riferiti nelle motivazioni e nelle scelte di intraprendere la professione? Ma quegli insegnanti sono di un’epoca che non esiste più: non esiste più la società in cu sono cresciuti gli insegnanti degli insegnanti di oggi. Viviamo in un altro contesto e quindi l’identità che si appoggia sugli ideali-valoriali e sui modelli forniti dalla scuola tradizionale sono fragilissimi. A questo credo si possano ricollegare tanti vacillamenti, tante oscillazioni, interrogativi e frustrazioni. Quanti insegnanti pongono insistentemente a vari tipi di esperti la domanda “ma che cosa devo fare?” Avanzo l’ipotesi che la domanda reale sia piuttosto “chi sono io? che cosa ci sto a fare? chi sono nel rapporto con i ragazzi, chi sono nel rapporto con le famiglie?”.

Le famiglie interrogano pesantemente l’identità professionale degli insegnanti, perché non hanno più nei loro confronti quel rispetto e quell’alleanza che tradizionalmente gli insegnanti si aspettano di avere dai genitori. Il mondo è cambiato e non abbiamo più gli stessi puntelli per la costruzione dell’identità professionale e personale.

Soprattutto avvertiamo la debolezza e la labilità dei riferimenti se andiamo alla ricerca di modelli solidi, chiari e coerenti, stabili nel tempo e nello spazio e per questo certi e sicuri; se abbiamo prevalenti attese di riconoscimenti e di conferme rispetto a quanto abbiamo interiorizzato, e che oggi non è più proponibile. Circolano ancora molte attese di un’identità forte, data dall’avere una posizione elevata o dal fondarsi su modelli ideali…Ma negli ultimi decenni abbiamo scoperto che c’è anche un’altra strada di costruzione dell’identità ed è quella che viene descritta come bricolage , come piccoli aggiustamenti che ciascuno fa da sé attraverso materiali anche poco appropriati, in momenti casuali e fortunosi, presi un po’ al volo, in mezzo a contraddizioni e contrapposizioni, aggiustamenti provvisori che portano a ricercare altri incontri, altri supporti e riferimenti. E le identità forti appaiono sempre meno quello edificate su modelli forti, e sempre più quelle che sono in grado di attraversare le turbolenze in modo dinamico, adattandosi ai mutamenti e ritrovando le proprie coordinate di fondo. Riusciamo a costruirci delle identità forti perché le confrontiamo, le esponiamo e sperimentiamo nell’incontro con tante diversità e con tante differenze, con tanti altri che sono proprio “altri”: dal confronto con questa alterità scopriamo dei pezzi di noi stessi che faticosamente, attraverso rielaborazioni, anche dolorose, possiamo cercare di tenere insieme. È un processo di costruzione dell’identità che è complicato, incerto, perché non sappiamo i risultati che dà e che è difficile, sempre minacciato nell’incontro con l’altro, sopratutto con un altro distante. Si è esposti a giudizi svalutativi, stereotipati e sommari in cui non ci si può riconoscere e che fanno chiudere in difesa. Reazioni di questo genere sono tipiche di varie professioni relativamente “forti”- e penso ai medici o ai magistrati, ma credo anche gli insegnanti – che sono sostenute da istituzioni massicce, potenti e da saperi costituiti, altamente formalizzati , strutturati, visibili, depositati e conservati, generalmente riconosciuti e rispettati. Per questi professionisti per molti decenni hanno funzionato identificazioni con modelli professionali forti, istituzionalmente protetti, socialmente legittimati. Oggi ad esempio i medici si sentono attaccati e messi in discussione rispetto alla bontà delle loro valutazioni e scelte, nelle loro prerogative, nel loro stile comunicativo, nelle loro competenze e si preoccupano di “difendersi”. Non a caso si parla di “medicina difensiva”, che i medici praticano per cercare di sottrarsi il più possibile ad eventuali critiche, ad attacchi al loro operato….come se la modalità più adeguata per proteggere la propria identità fosse quella di prendere le distanze dalle richieste dei pazienti e delle loro famiglie. Mi domando se per gli insegnanti accada qualcosa dello stesso genere, se quando ci si sente fragilizzati rispetto alla propria identità, si prendono le distanze dagli allievi e dalle loro famiglie, mettendosi in una posizione di difesa. Le attese di riconoscimento in realtà possono trovare maggiori corrispondenze e opportunità se vengono ascoltate sollecitazioni e indicazioni che arrivano dagli interlocutori più disparati. Se si accolgono richieste contradditorie e incoerenti, se ci si avvicina al disordine si può anche di volta in volta inventare una propria collocazione, un proprio stile, una propria declinazione rispetto a valori che sono da scoprire e riscoprire. Il processo di costruzione della propria identità per bricolage è continuamente esposto a interruzioni e smentite, a situazioni che danno riconoscimento e ad altre che disconfermano. E’ un percorso tortuoso, ma è anche quello che ha più probabilità di avere continuità nel tempo e di apportarci conoscenze e ri-conoscenze.

Si ha difficoltà a sviluppare questo percorso costruttivo dell’identità, e qui vengo al terzo e ultimo punto, perché c’è difficoltà a riconoscere i rapporti.

I rapporti nei microcontesti di lavoro nella scuola

Spesso, ascoltando i discorsi degli insegnanti sento parlare di “centralità dell’alunno”, un po’ anche come se questa fosse una affermazione importante per orientare il lavoro che si fa a scuola. Un’ipotesi fondante del mio impegno professionale nella formazione è che la crescita delle persone avvenga entro tante relazioni educative, sempre ambivalenti e sempre di simmetriche. Perché si parla di centralità dell’alunno? Se intendiamo sviluppare degli apprendimenti, delle socializzazioni, se ci impegniamo in un lavoro educativo, credo che al centro vadano collocati i rapporti. La centralità non si sposta dall’insegnante all’alunno, ma vengono considerati i rapporti che tra loro esistono. Spesso nella scuola il rapporto è strutturalmente duale: uno schema che è rafforzato anche dall’ assetto logistico, credo ancora presente in molte classi; da un lato un tavolino con l’insegnante, e dall’altro i ragazzi tutti in fila, uno dietro l’altro in modo che non si vedano in faccia; posizioni e ruoli sono ben divisi tra chi parla e chi ascolta, chi interroga e chi è interrogato. Entro questi impianti strutturali è difficile sviluppare delle relazioni multiple. Nello schema duale si accentua la di-simmetria fra chi sa e chi non sa, tra chi ha e chi non ha, tra chi può e chi non può. Anche con gli operatori sociali più volte richiamo questo aspetto e cioè che se ci si propone di supportare e accompagnare le persone in situazioni di sofferenza e disagio, cioè lo psicologo, il medico, l’operatore sociale non possono stare dall’altra parte, porsi in posizione gerarchicamente superiore come depositari del sapere o del bene …accompagnare richiede di porsi a fianco.

Perché siano possibili e valorizzati rapporti multipli, non cristallizzati entro una dimensione duale, che rischia di chiudere, di mortificare e mutilare le possibilità di ascolto reciproco e di comprensione della complessità in cui si è tutti collocati, è importante porre attenzione a che le dissimmetrie di età, di esperienza, di sapere, di capacità operativa non diventino gerarchie invalicabili che sanciscono superiorità e inferiorità. E’ cruciale che le di simmetrie vengono considerate e vissute come mobili, provvisorie, legate a situazioni specifiche. Le dissimmetrie sono inevitabili in quanto siamo tutti diversi l’uno dall’altro, ma siamo anche differenti, abbiamo diversa capacità di influenzare e riuscire, di ottenere e realizzare e tutto questo sta nel gioco della vita organizzativa e lavorativa, familiare e sociale. Quando la dissimmetria viene sancita e si solidifica entro ruoli e gradi gerarchici le possibilità di comunicazione si entropizzano. Lo sperimentate con i funzionari ministeriali: chi sta là , al centro, in alto non può strutturalmente ascoltare chi sta in periferia, chi sta sotto. Per definizione spetta a chi sta in alto definire che cosa si deve fare, pronunciarsi su ciò che va eseguito e seguito. Se ci proponessimo di reperire delle “leggi” nel funzionamento delle organizzazioni e delle istituzioni, questa sarebbe una delle prime da segnalare. La comunicazione nelle organizzazioni burocratico-amministrative (e il ministero e il sistema scolastico sono una di queste organizzazioni) non può strutturalmente andare dal basso verso l’alto. Non possiamo aspettarci che automaticamente emergano comportamenti differenti. Ci possiamo chiedere se nei contesti micro in cui ciascuno di noi ha più opportunità di muoversi e di influenzare riusciamo ad introdurre rappresentazioni diverse dei rapporti e modalità diverse di interazione e comunicazione nelle dissimmetrie. Credo in realtà che i rapporti orizzontali nella classe, nel consiglio di classe, tra classi di uno stesso istituto non siano sufficientemente valorizzati e spesso incontrino difficoltà perché ad essi vengono contrapposti i rapporti duali: ogni insegnante con l’alunno, ogni insegnante con la classe, ogni insegnante con la disciplina,….rapporti duali che mantengono tante separatezze. Forse i consigli di classe sono così difficili perché sono disfunzionali, sono delle discontinuità rispetto alla modalità di interagire e di comunicare, quindi richiedono iniziative trasgressive molto consistenti per poter essere delle situazioni comunicative. Non solo, nelle separatezze tutti possono pensare di essere uguali, anche se si è diversi, e ci si riconosce diversi, quando ci si misura. Per gli insegnanti è molto difficile ammettere tra loro esplicitamente l’esistenza di diverse competenze e capacità, perché tendono a considerarsi tutti uguali. E così diventa difficile che gli insegnanti con più esperienza siano di supporto a chi ne ha meno, che vengono legittimati come consulenti. Perché gli insegnanti devono essere tutti uguali, nessuno può insegnare all’altro, come se non si potesse apprendere da un pari. Così come i ragazzi non imparano dai loro compagni.

Solo se riusciamo a visualizzare la complessità dei rapporti che sono presenti nella situazione scolastica, la complessità sociale che è inscritta all’interno della organizzazione, riusciremo a sviluppare quello che secondo me è un apprendimento fondamentale: l’apprendimento dall’esperienza. Questo apprendimento non è alternativo all’apprendere dai libri, ma bisogna fare in modo che il libro sia un’esperienza di vita.

Vorrei precisare che l’esperienza non coincide con la pratica. In quel libro che ha citato Lucia Marchetti, tentavo questa distinzione e cioè che la pratica è il fare, l’operare mentre l’esperienza è l’elaborazione della pratica. Per questo non mi pare una buona strada quella del riferirsi alle “ buone pratiche” o del cercare di trasferirle da un ambito ad un altro. Le buone pratiche non si possono trasporre; sono buone in quanto sono contestualizzate, legate a quella situazione, a quelle persone, a quei vincoli, a quelle risorse, a quelle opportunità, a quei rapporti. La trasposizione delle buone pratiche è un grosso punto interrogativo che ha successo se si riesce a farla diventare esperienza, cioè qualche cosa a cui si è pensato. Tra esperienza e pratica si colloca la ricerca-azione, che forse potrebbe essere veramente una metodologia interessante da adottare nelle scuole, nei Licei di Scienze Sociali. La ricerca-azione è importante perché si fonda sull’assunto che conoscenza e azione si collegano non solo nel pensare per agire, ma anche perché agendo si pensa, ovvero l’azione offre delle possibilità di comprensione se viene riflettuta e auto-osservata. Nei rapporti è fondamentale questo modo di capire perché è agendo, è prendendo una iniziativa verso una persona, che capisci se la persona ci sta o non ci sta.

 

Ho portato delle riflessioni forse non del tutto ben congegnate tra loro. Mi sembrerebbe comunque interessante provare a re-interrogarsi sulla collocazione del lavoro che si fa nella scuola nel contesto più ampio, sulle attese che hanno gli insegnanti sul loro lavoro, sui rapporti che ci sono ella scuola. Penso che questa assemblea abbia davvero notevoli opportunità per interrogarsi su ciò, proprio per le scelte che sono all’origine della rete di scuole di scienze sociali e per le motivazioni che stanno alla base di questo Convegno .

Vorrei finire con una poesia di una poetessa polacca Wislawa Szymborska, a me molto cara, perché alleggerisce e approfondisce i travagli della nostra quotidianità e ci fa capire quanto la poetica sia poetica, quanto essendo poeti siamo fattivi.

 

Si intitola “Sotto una piccola stella”

 

 

Chiedo scusa al caso se lo chiamano necessità

Chiedo scusa alle necessità se tuttavia mi sbaglio

Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia

Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria

Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge ad ogni istante

Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo

Perdonatemi terre lontane se porto fiori a casa

Perdonatemi ferite aperte se mi pungo un dito

Chiedo scusa per chi guida dagli abissi per il disco con il minuetto

Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino

Perdonami speranza braccata se a volte rido

Perdonatemi deserti se non corro con un cucchiaio d’acqua

E tu falcone da anni lo stesso nella gabbia immobile

Con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto

Assolvimi anche se tu fossi un uccello impagliato

Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo

Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte

Verità non prestarmi troppa attenzione

Serietà sii magnanima con me

Sopporta mistero dell’esistenza se strappo fili dal tuo strascico

Non accusarmi anima mia se ti possiedo di rado

Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque

Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna

Che fin che vivo niente mi giustifica

Perché io stessa mi sono d’ostacolo

Non averne mia lingua se prendo in prestito parole patetiche

E poi fatico per farle sembrare leggere.

 

Wislawa Szymborska

 

Grazie!