La cultura del nuovo capitalismo

sennett

 

 

Richard Sennett

La cultura del nuovo capitalismo

ed Il Mulino Intersezioni, Bologna 2006

 

 

Perché leggerlo

Nel 2004, quando Richard Sennett tenne alla Yale University le conferenze da cui nacque questo saggio, i sintomi della più pesante crisi di questi anni non si erano ancora manifestati. Ma all’occhio attento del sociologo, attraverso la lettura dei comportamenti e delle reazioni dei microcosmi sociali allora coinvolti nel mutamento, era già evidente la carica di destabilizzazione, economica, sociale e psicologica, insita nelle politiche e nelle strategie d’impresa del nuovo secolo. “Alla fine degli anni 90 quando l’euforia economica svanì, divenne evidente che la fase di crescita globale aveva lasciato tracce permanenti in ambiti extraeconomici “ (p.11), ben oltre il raggio d’azione pur vasto delle imprese di alta tecnologia, degli operatori finanziari mondiali e dei nuovi colossi della vendita all’ingrosso e dei servizi . “La maggior parte delle persone - dice Sennett- non lavora in queste imprese. (…) eppure i fautori di questo genere di capitalismo hanno convinto tanta gente che la loro via è quella del futuro. (…) . Gli apostoli del nuovo capitalismo sostengono che la loro versione di tre temi fondamentali - lavoro, qualifica e consumo- comporti maggiore libertà in una società moderna fluida, “liquida”, per usare l’espressione di Zygmunt Baumann. (…) Affermo invece che questi cambiamenti non hanno portato libertà alle persone.

 

Di che cosa parla

Il saggio è diviso in tre capitoli, ciascuno dedicato a un concetto chiave della organizzazione sociale del nuovo capitalismo: la crisi della Burocrazia; il talento e lo spettro dell’inutilità; la politica come consumo. Un capitolo conclusivo recupera invece i valori che un “capitalismo sociale nel nostro tempo”, dovrebbe consentire di sviluppare: continuità biografica, utilità, abilità artigianale.

Prima ancora che indicare specifici apparati, il concetto di Burocrazia indica un modello di organizzazione del lavoro funzionale alla stabilità e all’inclusione sociale. Sono i patti tra organizzazione e individuo che durano nel tempo, la prevedibilità , se non la trasparenza, del sistema dei premi e delle sanzioni, la responsabilità , la costanza degli obiettivi aziendali e personali. Queste priorità, nel mondo del nuovo capitalismo, in cui “le transazioni sostituiscono le relazioni”, vengono ribaltate nel disprezzo. “ L’integrazione delle masse può venire meno”(p.36) L’ideologia del tempo informe e dell’assenza di regole come libertà accompagna le pressioni sul management da parte di un capitale impaziente di risultati a breve termine. Si teorizza l’ eliminazione di ogni rapporto tra comando e responsabilità. “La disponibilità a destabilizzare la propria organizzazione fu improvvisamente considerata un segnale positivo” –nota Sennett (p.34). E la casistica delle devastazioni aziendali finalizzate ad attirare nuovi investimenti sfiora gli accenti di un romanzo nero.

In questo quadro, ai processi “normali” di emarginazione sociale dovuti all’invecchiare delle qualifiche e delle tecnologie, si aggiunge un nuovo tipo di spreco illimitato di talenti. L’esperienza, la responsabilità, la capacità di manutenzione e di far funzionare le cose , diventano disvalori mentre l’importante è l’apertura continua di nuovi cantieri, reali e metaforici. “La stabilità in quanto tale gode di sempre minore prestigio morale”(p.57). I nuovi talenti che vengono premiati non sono quelli del lavoro ben fatto, ma quelli capaci di trarre il massimo vantaggio da una continua e fuggevole processualità.. L’arbitrio e la scarsa trasparenza diventano la regola, e le poste in gioco sono sempre più alte. Il mondo delle nuove, e crescenti, disuguaglianze finge di essere meritocratico ma non lo è.

Gli orizzonti dei tempi brevi, il consumo rapido e mutevole di idee e talenti e la destabilizzazione come valore hanno finito col contagiare, secondo Sennett, proprio chi avrebbe dovuto vedere più chiaramente i limiti di questo modello , e cioè i soggetti politici riformisti. Di qui l’analisi impietosa del “nuovismo” del New Labour di fine secolo, più incline a lanciare sempre nuovi piani di riforme che a implementare il già fatto, con la conseguenza di vedere aumentato il disincanto ANCHE quando le politiche, tutto sommato, funzionavano.

Come se ne esce? L’ultimo capitolo cerca di costituire un quadro culturale di possibile alternativa, per un capitalismo sociale che metta al centro, declinandoli nelle forme di questo millennio, i valori di continuità biografica, utilità , abilità artigianale. E qui vale la pena di vedere quanto di quei suggerimenti sia stato in realtà praticato in questi anni, non solo nei movimenti di rivendicazione, ma anche e soprattutto negli spezzoni di società , di ricerca e di pratiche economiche diverse che hanno cominciato a fare sistema . Nel frattempo la crisi intravista da Sennett è esplosa e si è aggravata, con tutto il suo portato di fragilità e disintegrazione sociale, ma la cultura del nuovo capitalismo non è più il pensiero unico.

Claudia Petrucci