A Lodi, una Scuola nel territorio e per il territorio

ADOLESCERE

L'ebbrezza e la fatica del crescere

Con quale sguardo i bambini e soprattutto gli adolescenti si sono affacciati per lunghi mesi su di un mondo contratto nelle strettoie della sofferenza?
Come hanno elaborato la fatica delle restrizioni e del distanziamento?
Quante cose avrebbe voluto dire e non hanno detto?
Come sono loro apparsi i più grandi, gli adulti, gli anziani nei momenti difficili delle giornate trascorse in casa?
Quanta energia hanno accumulato e ora vorrebbero esprimere?
Come da piccoli e da adolescente si possono e si debbono affrontare i temi fondamentali della vita, con quali strumenti, con quali atteggiamenti?
 

Promosso dalla Scuola Popolare della Camera del Lavoro di Lodi in collaborazione con Laboratorio degli Archetipi, il progetto, dal verbo latino adolescere, «crescere», si propone di offrire un contributo concreto alla riflessione e alle pratiche del crescere attraverso rappresentazioni teatrali, laboratori di animazione per bambini e adolescenti e incontri sui temi delle nuove forme di povertà educative.

Inaugurata nell'ottobre del 2020 con Risvegli, una performance ispirata agli effetti della dura esperienza della pandemia, la Scuola Popolare della Camera del Lavoro di Lodi vuole essere l'espressione del più ampio impegno delle forze sindacali a sostegno della crescita culturale della società civile in particolare delle sue fasce più deboli.

Una Scuola nel territorio e per il territorio secondo le indicazioni nazionali della FLC, Federazione Lavoratori della Conoscenza Cgil Scuola, sostenuta dalla Fondazione OdV Giseppe Di Vittorio.

Da una storia di ricerche e sperimentazioni teatrali, avviata negli anni ottanta da un gruppo di insegnanti impegnati nell’innovazione didattica, nasce Laboratorio degli Archetipi, un mosaico di progetti laboratorialii, rassegne e produzioni teatrali, eventi festivi, che di anno in anno coinvolgono nel segno dell'inclusione e della creatività scuole, centri socio-educativi, associazioni che si occupano di persone in situazioni d’emarginazione sociale.

Turghenev in scena

Passata è la notte
da un racconto di Ivan Sergeevič Turgenev “Il prato di Bez”

 

In una straordinaria notte d'estate un cacciatore, smarritosi sulla via del ritorno, incontra un gruppo di cinque ragazzini: accudiscono, attorno al fuoco, una mandria di cavalli. Appartati sul fondo di un dirupo non lontano dall'ansa di un fiume si preparano a trascorrere la notte. E con loro in disparte il cacciatore. Rifulge di stelle il cielo senza luna. Nel silenzio nitido è ogni suono, ogni rumore: lo scorrere dell'acqua, la voce dei ragazzini, il crepitare del fuoco, il grido di un uccello, il tonfo d'un grosso pesce. D'un tratto il tono dei ragazzini cambia: non più le faccende del giorno prima al centro del loro parlottare. Altri divengono i discorsi. Ciascuno a turno prende a raccontare.

All'inizio sono gli accadimenti arcani di una notte trascorsa in una vecchia cartiera a tenere banco in un'atmosfera thriller. Poi è l'infelicità di un uomo con la storia di un amore impossibile a catturare l'attenzione degli astanti. La tensione del gruppo cresce nel racconto del faccia faccia con la morte in una terra considerata impura. L'ilarità esplode al termine di un'apparente funesta storia: la mancata fine di ogni cosa. Un tempo per riprendere fiato e la narrazione notturna prosegue con il ritmo lento di altre storie segnate da sentimenti di smarrimento e di nostalgia. La stessa che, quando la notte volge verso il mattino, spinge uno stormo di beccaccini a fare ritorno alle terre ove non v'è inverno, non v'è gelo, non v'è freddo, terre lontane, molto lontane...

Vibrano nei racconti dei ragazzini le inquietudini, le oscillazioni della vita adolescente, che si spinge oltre i confini del mondo adulto per saggiarne prima di tutte le debolezze e i controsensi ma nel contempo l'immensa tenerezza. Sullo sfondo di un'ambientazione onirica riprendono vita tra timori e tremori, stupore e improvvise esplosioni di allegria, alcune tra le figure, che per secoli hanno abitato l'immaginario collettivo delle genti dell'Europa orientale. Il Domovoj, la Rusalka, Triska, il Vodjanoi... Preziosi frammenti di un mondo magico scorrono nelle ore della notte che sprofonda tra le acque stagnanti, i borri, i canneti, i boschi rigogliosi dell'inconscio. Come i fratelli Grimm, come il grande studioso di folklore Aleksander Afanasjev, nelle vesti del cacciatore, lo stesso autore del racconto ,Turgenev, ascolta e annota nella memoria i racconti dei ragazzini, ripetendo così l'opera di rammemorazione, che ha dato corpo alla formazione delle culture popolari, attraverso i cui modelli si sono ritualizzate le fasi di passaggio dall'infanzia alla vita adulta.

Nelle storie, che compongono la tessitura narrativa del racconto di Turgenev, vi è tutto il ribollire della vita che nel crescere vuol conoscere come stanno in verità le cose del mondo. Non importa se la Verità è scabrosa, dolente, avvolta nelle apparenze della fine. La notte, poi, con le sue ombre, con i suoi momenti di agitazione, di batticuore passa. La vita al mattino riprenderà il suo corso: il cacciatore il cammino verso casa, i ragazzini di nuovo in groppa ai cavalli al galoppo. La messa in scena di una delle più belle pagine della letteratura russa non è solo l'invito a soffermarsi sulla fascinazione che la Natura ancora esercita, se si sa coglierne la bellezza, o sul valore del silenzio che tutto fa sentire, ma l'occasione per riflettere sulla “fatica e sull'ebrezza del diventare adulti”, dramma incancellabile della storia umana.

Progetto drammaturgico e riduzione teatrale del racconto tratto dalle “Memorie di un cacciatore” (1854): Giacomo Camuri e Marco Pepe. In scena: Marco Pepe e Michelangiola Barbieri Torriani. Maschere e altri elementi di scena: Sabrina Inzaghi Musiche originali: Emanuele Chiaramonte Luci: Andrea Buttera Collaborazione al progetto: Maddalena Astorri

Qui accluso, un piccolo saggio di Giacomo Camuri relativo all'evento, assolutamente da leggere: davvero interessante- oltre tutto il resto - l'attualizzazione del racconto che immagina nel "prato di Bez" gli adolescenti di oggi ...

Attorno a un racconto di Ivan S. Turgenev, "Il prato di Bez"

Attorno a un racconto di Ivan S. Turgenev
Il prato di Bez

di Giacomo Camuri

1. Un luogo di incontri

Quel luogo appartato, seminascosto, a ridosso di un dirupo scosceso, che dalle nostre parti – scriveva Turgenev nelle Memorie di un cacciatore – si chiama il Prato di Bez, non lontano dall'ansa di un fiume, prospiciente a un canneto, è un luogo di incontri. Si incontrano i protagonisti dell'omonimo racconto, si incontrano le suggestioni offerte dai suoni e dai rumori provenienti dall'ambiente, si incontrano paesaggi portati dalle storie raccontate da cinque ragazzini. Il luogo si affolla dei personaggi che ogni storia riversa, dei loro umori: così il Prato diviene un palcoscenico a cielo aperto su cui si muove un'umanità un po' tribolata, un po' sprovveduta, in fondo come si presenta l'umanità a tutte le latitudini e in ogni epoca negli snodi cruciali e critici della vita.

Il Prato di Bez è un luogo di incontro anche per chi, casualmente, ha incontrato il racconto in un pomeriggio d'estate, chiacchierando con un amico durante le prove di uno spettacolo ideato per la Giornata del Rifugiato e ispirato al mito della creazione dei Dogon trascritto da Marcel Griaule in Dio d'acqua Da allora mi è capitato più volte di incontrare il racconto, leggendolo una prima volta in treno, successivamente con più attenzione sprofondato in poltrona sino a farne un oggetto di lavoro: l'avvio di un nuovo progetto per la messa in scena di uno spettacolo proprio con l'amico che mi aveva parlato del racconto di Turgenev e della raccolta, Memorie di un cacciatore, in cui il racconto si trova.

 

2. Un'irresistibile pulsione

La lettura approfondita e sviscerata in tutte le sue parti del testo, condotta passo passo in compagnia dell'amico – oggetto di confronto e di discussione feconda – è divenuta sotto diversa forma luogo di incontri, occasione di intrecci tra nuove conoscenze e saperi ritrovati. Dal racconto all'autore il passo è stato brevissimo e inevitabile. Attraverso Turgenev, che, terminati gli studi universitari, giovanissimo, a Pietroburgo, si reca a Berlino per studiare storia, filologia classica e filosofia, e tornato a Mosca si sarebbe dedicato all'insegnamento della filosofia all'Università, se il governo non avesse in quello stesso momento soppresso la cattedra, si apre uno scorcio su quel secolo XIX così pervaso di fermenti ideologici, istanze insurrezionali, innovazioni tecniche ma altrettanto straordinariamente contraddittorio per le pulsioni che febbrili lo attraversano.

Una pulsione, in particolare, percorre gran parte del secolo, quasi il presentimento di una minaccia, di un'imminente e forse anche irrimediabile perdita. Irrompe sulla scena dell'immaginario letterario e filosofico europeo un desiderio diffuso, una ricerca affannosa di attaccamento, di radicamento ad un suolo patrio, ad una terra madre, ad una natura lontana dalle contaminazioni urbane: una terra e una natura ancora capaci di rigenerarsi nei loro disegni intimi e originari e di travasarne sul versante dell'umano le linfe spirituali attraverso i canali privilegiati delle lingue natie e delle tradizioni gelosamente serbate dai popoli.

Ancora, sul finire della vita, Turgenev esprimeva il proprio profondo debito nei confronti della lingua materna con queste parole declamate a conclusione della presentazione di una raccolta di poesie in prosa a Parigi durante il congresso mondiale degli scrittori, 1878 : «Nei giorni del dubbio, nei giorni delle gravi riflessioni sul destino della mia patria, solo tu mi sei di sostegno ed aiuto, o grande, potente, verace e libera lingua russa! Se tu non ci fossi, come potrei non cadere in disperazione alla vista di tutto ciò che avviene in casa? Ma non si può credere che una tale lingua non sia stata data a un grande popolo!»

Nello stesso periodo Nietzsche auspicava in un'operetta, Sull'avvenire delle nostre scuole, contro le minacce di una modernità senza tradizione, la salvaguardia dell'autentico spirito della lingua tedesca, espressione della più genuina eredità greca. Lingua e natura si saldano anche nel testo di Nietzsche. Non è casuale l'ambientazione in cui prende avvio in forma di racconto la trattazione sui pericoli di un'istruzione indebolita nei fondamenti spirituali: una notte, un prato sul limitare di un bosco, l'alta riva che sprofonda verso l'alveo del grande fiume Reno.

 

3. Là dove nascono i racconti

A questa sorta di reditus ad uterum delle lingue natie e delle patrie si doveva necessariamente accompagnare la riscoperta e la riabilitazione di tutti quegli aspetti ed elementi che potevano apparire agli occhi dei ceti urbani come i relitti di plurisecolari tradizioni popolari ormai relegate alle aree rurali. Così Turgenev sprofondava, per dirla con Kant a proposito di ciò che egli pensava dell'esperienza, nella “fertile bassura dell'esperienza” del mondo popolare con una sensibilità e un'attitudine all'osservazione, si direbbe, partecipata, secondo i canoni della ricerca antropologica novecentesca.

Tre anni dopo la pubblicazione delle Memorie di un cacciatore, Aleksander N. Afanasjev avviava nel 1855 la pubblicazione in otto volumetti dei Racconti del popolo russo: «per la prima volta – scrive Franco Venturi nella prefazione all'edizione italiana delle Antiche fiabe russe – si potevano leggere nel loro insieme in una versione fedele e vivace quelle favole che per secoli avevano accompagnato la vita dei contadini, che le balie avevano raccontato ai giovani figli dei signori, che erano state stampate talvolta su fogli volanti che i mužiki si erano comperati al mercato». Maturati pressoché nello stesso periodo, i racconti di Turgenev e i lavori di Afanasjev si interfacciano. Le Memorie restituiscono il contesto vitale di quell'umanità minuta, saldamente ancorata attraverso la durezza del lavoro ad un rapporto simbiotico con la terra, vero humus dell'immaginario popolare, a cui si debbono ascrivere i prodotti della così detta letteratura orale, di cui i Racconti, a noi noti come le Antiche Fiabe rappresentano un paradigma, oggetto di molteplici ulteriori indagini, tra cui spiccano gli studi di Vladimir Propp confluiti nella Morfologia della fiaba.

Le storie raccontate dai cinque ragazzini nel Prato di Bez non sono certo fiabe anche se delle fiabe hanno non pochi ingredienti: un filo le unisce ed è quello del magico, dell'interazione con l'occulto che si palesa in molti modi determinando comportamenti e destini. Vi sono nelle storie apparizioni, figure che appartengono alle ambientazioni immaginifiche in cui si celebrano le avventure prodigiose dei protagonisti dei racconti fiabeschi. Sopratutto vi è un tema che accomuna le storie del Prato alle Fiabe di Afanasjev: l'incombere di un sentimento di morte che, se nelle fiabe costituisce il motore del trascendimento dello stesso sentire mortale tramite la ricerca di stadi di immortalità, nelle storie esso segna il limite estremo con cui la consapevolezza di chi sta divenendo adulto si deve confrontare.

 

4. Una storia di iniziazione

Isolati attorno ad un fuoco tra un dirupo ed un corso d'acqua, lontani dai loro villaggi, i cinque ragazzini del racconto di Turgenev danno voce alle proprie alterità, agli 'io' trattenuti solitamente nei lavori del giorno, intrisi di incertezze, inquietudini, sospetti, sentimenti di perdita, trasponendo il dilagante irrompere delle emozioni, suggestionate dall'accavallarsi delle sonorità notturne, in storie che, una dopo l'altra, vanno a toccare i nervi scoperti dell'esistenza, là dove i destini si forgiano o giungono a compimento.

Dei cinque ragazzini quattro erano ben avvezzi al lavoro – il lavoro minorile era una norma per i figli dei ceti popolari con tutto quello che comportava in termini di sfruttamento, fatiche, dolori – ma qualcosa di particolare avviene in quella notte di veglia, nel loro stringersi alla luce del fuoco e nel loro reciproco sostenersi e aprirsi: narratori per caso di vicende accadute a loro stessi nel lavoro di una vecchia cartiera od occorse ad altri in un succedersi di situazioni ambigue e destabilizzanti i ragazzini divengono, quasi a loro insaputa, celebranti di un rituale di iniziazione alla vita, che in un faccia a faccia con la morte (questo in sostanza il nucleo portante di ogni rito iniziatico), attraverso l'evocazione di incontri sorprendenti e di passaggi rischiosi, termina con il generare in tutti loro un ampliamento ed un potenziamento della coscienza, una più certa presa di posizione nei confronti della realtà e delle verità del mondo.

L'ubicazione della località denominata Prato di Bez denota tratti salienti di liminalità riscontrabili in molti altri luoghi di transizione noti agli studi di antropologia e di storia delle religioni: avvolta nella nube della notte, raccolta sul fondo di un avvallamento al confine di un'ansa fluviale, proiettata su un oltre di lontane colline, essa rappresenta l'ambientazione ideale per un tempo di lavorio interiore, di trasformazioni identitarie, di produzione simbolica. Direbbe Marc Augé, il Prato di Bez è un luogo della memoria, non già per i ricordi, i ricordi del cacciatore e dei ragazzini, ma per i simboli che vi si palesano, per le radici culturali che attraverso le immagini e le figure della tradizione congiungono il presente di quelle ore notturne, di quei giorni d'estate, di quegli anni di mezzo secolo a un passato archeologicamente consistente di storie transnazionali di matrice prevalentemente slava.

 

5. Passaggi ed emozioni

Chi sono dunque i personaggi che animano le storie dei cinque ragazzini, eccitandone le menti? Un piccolo compendio di folklore russo si squaderna dalle loro voci man mano che gli episodi messi in campo disegnano i contorni di una topografia magico-religiosa, dove vengono identificati i luoghi, entro cui, in un modo o nell'altro, le singole esistenze si ritrovano con tutte le loro diversità caratteriali a fare i conti con le prove del destino. Se l'irruzione sonora di un Domovoj, che agita nel primo episodio la notte di un gruppo di giovanissimi operai di una cartiera, evoca, detto alla lettera, “quello della casa”, ovvero il piccolo demone domestico, chiamato anche con l'appellativo di “Nonnino”, il nume tutelare, icona degli antenati, che dimorava bonario con i suoi tiri mancini abbarbicato tra i muri di un edificio o nascosto dietro o sotto la stufa in un'izba, già la comparsa nel secondo episodio di una Rusalka sposta il focus del racconto oltre il confine del domestico in uno spazio di spaesamento. Nell'abbaglio di una figura femminile, che con voce suadente si presenta ad un uomo dondolandosi tra i rami di un albero nel fitto di un bosco notturno, traspaiono a mo' di monito i riflessi di tante altre storie: storie di donne dalla vita prematuramente spezzata per mano propria o per mano altrui o per imprevedibili incidenti (la caduta nell'acqua), storie di anime trasfigurate in evanescenti apparizioni in cerca di riscatto o di rinascita.

Che l'esperienza non sia scevra di pericoli e che il mondo non sia immune dall'impuro è la lectio certa che viene dal terzo giro delle storie narrate nottetempo dai ragazzini poste da Turgenev al centro del racconto: sono le storie di Varnavicy, di una terra dichiarata impura, contaminata dai fantasmi della morte, dalla dannazione di chi è stato sepolto e da chi la vede venirsela incontro. Qui non vi sono figure del mito ma il sentore di un'atmosfera cupa intrisa di ritualismi funerari, come il ricorso a certe erbe e la memoria di particolari congiunture calendariali (gli accadimenti nei giorni dei morti). Impurità e ritualismo, d'altro canto, sono aspetti inseparabili e inestirpabili della storia umana, costituiscono uno dei principali cespiti di tutte le culture, che dalle definizioni e dai trattamenti dell'impurità hanno tratto motivi di elaborazioni cosmologiche e di invenzioni terapeutiche, come ricorda sin dal primo capitolo, Impurità e rito, Mary Douglas nel suo saggio dedicato all'analisi dei concetti di contaminazione e di tabù, Purezza e Pericolo.

Nella stessa congerie temporale delle Memorie di un cacciatore Sœren Kierkegaard aveva posto al centro della riflessione filosofica il tema della crisi quale cifra dell'esistenza tout-court. Nella prima parte de La malattia per la morte egli stesso era ricorso al mondo popolare del fiabesco per meglio addentrarsi tra le trame delle esperienze della disperazione e dell'angoscia. Disperazione e angoscia che irrompono nella quarta storia incentrata sul così detto “prodigio celeste”. Qui la crisi assume la dimensione apocalittica di un'imminente fine del mondo, che porta con sé lo scompaginamento delle normali consuetudini di vita, il ribaltamento dei ruoli sociali, le fughe senza meta, l'arretramento a stadi quasi animaleschi. Con l'avanzare diurno di un eclissi di sole, di questo si tratta con il “prodigio celeste”, si fa avanti nel racconto dei ragazzini una nuova figura denominata Triska, le cui caratteristiche, dall'apparente gigantismo (poi rivelatosi una burla) alle abilissime doti di trasformismo e di elusione, paiono avere una certa concordanza con taluni aspetti propri di quella figura archetipica del Briccone divino, studiata nell'omonimo saggio edito da Paul Radin con i commenti di Karl Kerényi e di Carl Gustav Jung.

A seguire altre due figure: il Lesij e il Vodianoj, interpretabili come le precedenti (ma questo vale per l'intero pantheon dell'immaginario mito-poietico) in termini di virtualizzazione personificata di certi stati mentali, elaborati nel crogiolo di un tempo lungo nel gioco di scambi e contaminazioni culturali, collettivamente definiti in rapporto a specifiche situazioni esistenziali, alle criticità insite, e lo si coglie bene nel racconto di Turgenev, nei mondi domestici, negli ambienti abitati dal selvatico, negli eventi atmosferici e nelle epifanie astrali.

Boschi, corsi d'acqua, paludi, praterie ondulate, distese a coltivo, fossi, dirupi componevano la tessitura dei paesaggi che si affacciavano mediamente allo sguardo dei più nella Russia zarista, quando ci si spingeva al di là dei propri villaggi: un mondo-ambiente non privo di insidie, di allucinazioni, di malie, di segnali inquietanti. Così non poteva mancare nel mondo mentale dei ragazzini il ricorso al Lesij, allorché un richiamo nel cuore della notte, probabilmente il grido di un airone, li mette in allarme, sollevando ricordi e ipotesi interpretative. Che sarà la causa di questo nuovo spavento? Ranocchie o il Lesij? Ma a qualcuno viene in mente che il Lesij non può aver gridato, perché il Lesij è muto, fa solo con il battito delle mani un gran baccano. Il Lesij, alla lettera “colui che viene dalla foresta”, era nella tradizione una sorta di guardiano dei mondi forestali, accompagnato secondo alcune fonti narrative da un branco di lupi, non particolarmente benevolo verso i contadini, che si avvicinavano ai bordi dei boschi, e ancor meno nei confronti dei viaggiatori, che trovandosi ad attraversare le foreste venivano da lui facilmente ingannati sulla giusta direzione da seguire nei loro tortuosi percorsi. Era in altre parole il Lesij la principale causa di smarrimento, di quel perdersi della mente nello spazio, che porta ad uno stato di alterazione tale da non saper più distinguere la destra dalla sinistra. Si diceva infatti che il Lesiji scambiasse agli sventurati viaggiatori le scarpe, gliele invertisse o facesse loro sparire sotto il naso gli stivali, per questo i ragazzini, come tanti in quelle stagioni della storia, si auguravano di non doverlo mai incontrare.

E il Vodjanoi? Un filo rosso, o meglio un filo fatto di trasparenze cangianti, percorre la narrazione di Turgenev ed è un filo di acque che fluiscono nell'alveo del fiume o lungo i canali, ristagnano paludose tra gli anfratti e negli avvallamenti, corrono veloci a muovere i macchinari della cartiera, sciabordano tra i canneti lungo la riva di un'ansa fluviale. E' lo stesso filo lungo il quale oscillano le emozioni dei cinque ragazzini e dei protagonisti dei loro racconti. Lì il fragile rapporto uomo-mondo, un mondo che talvolta si mostra impari, sproporzionato, ingiusto, corre il rischio di infrangersi ed allora la crisi implode in pazzia. E' la storia, presente nell'ultimo racconto della notte, il quinto: è la storia di Akulina la “scema”, gettatasi nel fiume per amore, tratta miracolosamente in salvo e mai più tornata in sé, rinsecchita sino a far paura, spesso ferma, dondolante, al centro di una via. Ma è anche la storia di una dolcissima madre, Flekista, che perse in un fiumicello il suo bambino mentre a poca distanza rastrellava il fieno in un campo. Lì si disse, ed ogni volta ce lo si ripete avvicinandosi a un corso d'acqua, che era stato il Vodjanoi. Il Vodjanoi era dunque il fautore degli annegamenti inspiegabili, uno spirito il cui aspetto aveva le sembianze di un vecchio, sostanzialmente un uomo-pesce, abitante, si riteneva, di una città sepolta nei fondali, poco avvezzo a frequentare la terraferma ma propenso a carpir gli uomini per ridurli in stato di schiavitù.

 

6. L'ombra di una presenza

Nell'arco di qualche ora sotto la coltre di un cielo lucente di stelle i cinque ragazzini celebrano la loro appartenenza al mondo, il loro sentirsi affratellati (spesso ricorre nel loro dialogare la formula “fratelli miei”) a una umanità, che ha avuto modo di saggiare la consistenza ambigua, sfuggente di una realtà, che in tutti i suoi comparti non è mai come appare: non c'è verso che il visibile prima o poi non sfumi nell'invisibile, che non ci si trovi inghiottiti in uno spaesamento, da cui, se non si è più che accorti, si finisce con l'uscire sfasati. Il rischio dello spaesamento, il pericolo di rimanere intrappolati in uno stato di alienazione permanente è il prezzo che pare doversi pagare per stare al mondo, se del mondo non si ha modo di avere una sufficiente prefigurazione. Questo è il compito che i cinque ragazzini, stimolati dagli umori, dai suoni e dai rumori della notte, spinti dal loro essere adolescenti assegnano alle storie che si scambiano, condividendone e interiorizzandone i sussulti, gli spaventi, i sollievi. Lo stesso compito, che le comunità di stampo tradizionale, come quelle ancora ampiamente diffuse nei territori dell'Europa ottocentesca, avevano continuato ad assegnare ai derivati fiabeschi del mito. Si pensi all'opera dei fratelli Grimm, Jakob e Wilhem, nota con il titolo di Fiabe del focolare pubblicata tra il 1812 e il 1822. Le storie spaventano spesso, come hanno sempre spaventato, ma nel contempo salvano, educano, fanno crescere, come aveva ben chiarito in tempi non sospetti contro i detrattori dei racconti di fiabe Bruno Bettelheim in un celebre libro Il mondo incantato dedicato per l'appunto all'uso e al significato psicanalitico delle fiabe.

Un'osservazione di Jung a proposito della persistenza del mito del Briccone divino presso i nativi americani e del perdurare di manifestazioni collettive riconducibili, a livello intercontinentale, ad uno spirito ugualmente anacronistico, irriverente e per certi versi demoniaco, come lo è il genio ispiratore delle feste carnevalesche nell'occidente europeo, può gettar luce sul particolare impasto di mondo in cui i ragazzini sono cresciuti e dentro i cui meandri labirintici sono chiamati a districarsi con cognizione di causa. Essi infatti non fanno altro che confidarsi storie sentite da altri, non storielle qualsiasi ma storie gravitanti attorno a fatti specifici riconducibili a figure consacrate da una catena indefinita di storie passate dalle bocche di una generazione all'altra.

La longevità di un mito – ma questo vale anche per i suoi derivati – , scriveva Jung pensando al lavoro di Radin, «si potrebbe spiegare con la vitalità e l'energia ancora presenti nello stato di coscienza descritto dal mito e con la segreta attrazione e la fascinazione che il mito esercita sulla coscienza». Non semplici accadimenti, fatti di cronaca quelli al centro dell'attenzione dei ragazzini ma vere e proprie esperienze empaticamente vissute con tutte le ripercussioni emozionali evocate, perché, asseriva ancora Jung «il fatto che il mito sia ripreso e raccontato più volte implica un'anamnesi terapeutica di contenuti che, per ragioni non decifrabili di primo acchito, non devono andare a lungo perduti». Ciò che i ragazzini non potevano sapere, è che i loro discorsi avevano a che fare non tanto con i misteri di un mondo semplicemente esterno, distribuito in un insieme di paesaggi più o meno intriganti, ma piuttosto con loro stessi, o meglio con la parte più segreta, più sfuggente, se di parte si può parlare, delle loro menti. Ciò che essi non potevano immaginare è che le figure e le situazioni delle loro storie fossero in qualche misura il riverbero del loro mondo interiore, sconosciuto al loro Io, come l'Inconscio è sconosciuto ai più. L'Inconscio si fa conoscere solo per vie traverse e attraverso continui travestimenti. Un mondo non ancora dominato dalla razionalità empirica si apriva dunque ai loro occhi: un mondo sensibile alle dinamiche paradossali, oppositive, diceva Jung, della Psiche con la sua Ombra e la sua Anima.

 

7. Attualità di un racconto

Ora a distanza di centosettanta anni dalla prima pubblicazione de Il prato di Bez può sorgere del tutto naturale una domanda: che cosa di quell'esperienza notturna vissuta da cinque ragazzini potremmo ritrovare oggi, riconoscibile nei vissuti adolescenziali? Stabilite, da una parte, le dovute differenze tra epoche, per certi aspetti incomparabili nell'ambito dello stesso Occidente, basti pensare alla questione del lavoro minorile e ai livelli odierni di istruzione diffusa, e non perdendo di vista, dall'altra, la propensione all'instabilità e all'oscillazione delle linee di confine tra le età della vita, tanto che anche oggi non è facile stabilire con esattezza dove inizi e dove termini l'adolescenza, non è superfluo cercar di scorgere, nell'arco di un tempo soggetto a non poche rivoluzioni, il persistere di certi procedimenti comportamentali, come Jung ha insegnato su un altro piano. Un primo aspetto balza agli occhi nel quale facilmente i preadolescenti e gli adolescenti dei nostri giorni si potrebbero riconoscere: l'importanza del gruppo dei pari. Nel racconto di Turgenev infatti non vi è interferenza tra il cacciatore, giunto per caso nel Prato, e il gruppo dei ragazzini, che solo marginalmente gli prestano attenzione all'arrivo e che mai lo coinvolgeranno nel corso delle loro affabulazioni, come se gli accadimenti narrati nelle storie scambiate riguardassero unicamente loro stessi, il loro essere al mondo. Qui emerge un tratto caratteristico del processo di individuazione, che si ripropone ad ogni generazione con l'affacciarsi della pubertà: l'esigenza di una separazione e di una riservatezza funzionali alle manifestazioni di nuovi stati d'animo orientati alla conquista/esplorazione di differenti o di più consoni spazi-ambiente. La ricerca di luoghi appartati e la condivisione di confidenze e di certe storie 'segrete' con affiatati compagni di viaggio sono aspetti del tutto riscontrabili nella fenomenologia contemporanea dei comportamenti adolescenziali.

Ma forse c'è ancora qualcosa che rende attuale il racconto di Turgenev. Ad esempio le annotazioni sugli abiti dei cinque protagonisti. Non erano certo abiti firmati i loro. Tranne uno, il più grande quattordicenne, di famiglia agiata (e lo si vede sin dagli stivali), gli altri vestono su per giù allo stesso modo (sono figli di contadini) e per questo facilmente si riconoscono in una solidarietà fraterna. Ma non è questo quanto tuttora accade, quando la tipologia del vestiario entra in gioco nel facilitare, se non nel determinare, la 'spontanea' formazione dei gruppi dei pari?

Anche dalle loro storie si possono trarre spunti di riflessione per comprendere le dinamiche presenti, per dirla con Pietropolli Charmet, nel brusio della mente e del corpo adolescenziale: vi sono strategie, modalità di approccio al mondo ricorrenti in determinate fasi di crescita. In vero le figure della tradizione messe in campo nelle loro narrazioni non sono che grandi simboli di mediazione, espressione delle possibili forme, in cui il mondo si annuncia, si delinea, e dei possibili atteggiamenti con cui disporsi di fronte al mondo e così trovarvi dimora.

Proviamo o ad immaginare un nuovo Prato di Bez: una notte d'estate, un gruppo di ragazzini distanti da casa in un luogo appartato, sulla riva di un fiume o su di un litorale marino, a raccontarsela con l'immancabile schermo di uno smartphone tra le mani. Che cosa si potrebbero dire? All'inizio, ridendo, togliendosi di tanto in tanto la parola, il loro discorso deambulerebbe tra fatti quotidiani e banalità ma col passare delle ore, forse anche ispirati dalle atmosfere del luogo, il loro dire si potrebbe indirizzare verso argomenti ora più intimi ora più alti, un po' alla volta portati a toccare il da farsi da grandi, le difficoltà di sentirsi propriamente felici, i rischi già corsi e da correre per acquisire fiducia in se stessi e di conseguenza autonomia e potere. Non ci stupiremmo se nel bel mezzo dei discorsi, digitando, facessero d'un tratto apparire figure note alla loro comunità di appartenenza, figure carismatiche rivestite di quell'autorevolezza simbolica di mediatori o di dispensatori di vita, di energia, di consigli.