Eccessi di standardizzazione

di Davide Zotti

 

Isolare, sappiamo, è deformare

Danilo Dolci,
(Dal trasmettere al comunicare)

insegnanteTutti fermi ai blocchi di partenza. Gli studenti delle scuole italiane, da quest’anno di ogni ordine e grado, partiranno per una gara che dovrebbe misurare competenze in ambito linguistico e logico-matematico sulla base di somministrazione di prove standardizzate, cioè uguali per tutti, con risposte preconfezionate da scegliere tra un ventaglio più o meno ridotto di possibilità. Una gara dunque con una sua partenza, le prove uguali proposte a tutti lo stesso giorno, ed una meta rappresentata dalle risposte (speriamo giuste), un meta condivisa da studenti, insegnanti e scuole, perché dai risultati di questa gara tutti saremo coinvolti.

Perdonatemi la metafora sportiva ma a mio parere rende molto bene l’impianto concettuale che sta alla base delle cosiddette prove Invalsi: una gara uguale per tutti, una meta a cui però tutti non giungeranno e la temuta classifica finale, che non riguarderà solo gli studenti, ma anche le scuole e gli insegnanti.

Purtroppo non c’è forse nulla di più estraneo al processo valutativo, ed in generale alla scuola come l’hanno voluta i padri costituenti, che l’idea di una gara o una competizione uguale per tutti. Se valutare è questione seria, non possiamo trascurare dei semplici ma fondamentali elementi che determinano l’attendibilità degli strumenti, delle modalità e delle finalità della valutazione.
La scuola italiana ed in particolare il nostro Liceo hanno posto in primo piano l’educazione alla complessità del reale, alla sua lettura attraverso l’attivazione di processi mentali per i quali le conoscenze e le competenze si acquisiscono e si verificano attraverso il confronto tra i saperi, l’attività laboratoriale, le transazioni fra punti di vista diversi. La valutazione, che deve nascere sempre da un’attenta osservazione, è per sua natura legata al contesto in cui opera, cioè deve chiamare in causa le modalità con cui qualcosa è stato insegnato e appreso, deve tener conto dei progetti di intervento reali, costruiti dai docenti sulla base dei continui aggiustamenti di contesto.

L’oggettività, e quindi l’agognata scientificità, di una valutazione non può reggersi sulla decontestualizzazione degli apprendimenti. I test, che propongono un approccio nozionistico e standardizzato ai saperi, ignorano l’approfondimento, le pratiche collaborative, la progettazione, il carattere poliforme della scuola italiana. La pretesa oggettività dei test appare inconsistente nel momento in cui le prove e i relativi punteggi non tengono conto delle importanti variabili legate alla composizione socio-culturale degli studenti: gli apprendimenti degli alunni devono essere sempre ricondotti ad un insieme di fattori situazionali e ambientali, alla complessità dei percorsi di apprendimento in cui ogni soggetto mette in campo una molteplicità di intelligenze, abilità e strategie. Test di questo genere, oltre che semplificare, ma direi anche banalizzare, un momento importante come dovrebbe essere quello della valutazione di sistema, con la loro presunta oggettività e il coinvolgimento di un significativo campione della popolazione scolastica rischiano di impoverire l’immagine della scuola italiana, ma soprattutto di ignorare quella che è una delle sue funzioni principali e sulla quale ha dato degli importanti risultati: vale a dire, il suo valore compensativo.

La scuola italiana ha funzionato meglio in relazione ai bisogni di uno status sociale medio basso; in altre parole, in ossequio al mandato costituzionale, la scuola italiana ha cercato di non essere l’ospedale che cura i sani e respinge i malati. Ma tutto questo i test Invalsi non potranno rilevarlo, costruiti come sono su un’impostazione mnemonica, frammentaria e nozionistica del sapere; essi potranno misurare solo elementi parziali e marginali delle tante capacità che la scuola italiana continua a perseguire negli studenti che le sono affidati.

A ciò si aggiunga il ruolo del docente rispetto a queste prove, così come previsto dall’Invalsi: egli deve diventare un “somministratore”, un fedele esecutore di consegne, non è permessa alcuna iniziativa ma il rispetto di comandi indicati chiaramente nel “Manuale del somministratore”, consegnato di norma ai docenti prima delle prove; a titolo esemplificativo riporto solo due frasi, « … le procedure descritte in questo manuale siano eseguite alla lettera», oppure «(il somministratore non deve) rispondere a domande riguardanti il contenuto dei quesiti. Non fornire nessuna informazione, risposta o indicazione specifica. La risposta migliore in questi casi è: Mi dispiace, non posso rispondere a nessuna domanda. Cerca di fare del tuo meglio». Un duro colpo alla dignità professionale e culturale dell’insegnante.

Dall’anno scorso, inoltre, al docente è richiesta una nuova incombenza, cioè quella di correggere e inviare i dati, ovviamente tutto gratuitamente, al di fuori di ogni obbligo previsto dal contratto nazionale, compiti che obbligatoriamente spettano all’Invalsi, non certo ai docenti. La valutazione degli apprendimenti è azione tipica della funzione docente nel momento in cui il suo esercizio avviene in base ai principi del P.O.F. di istituto, stabiliti dal Collegio Docenti, e ai criteri contingenti e tipici dei contesti di insegnamento e apprendimento.

Per dovere di completezza bisognerebbe anche entrare nel merito dei contenuti di questi test; anche in questo caso riporto, per motivi di spazio, un solo esempio ma molto significativo, soprattutto per noi docenti di scienze sociali e umane, impegnati a spiegare ai nostri studenti il meccanismo dello stereotipo, a presentare le ricerche di M. Mead sui ruoli di genere e a riflettere sulla dimensione culturale di ogni norma e regola. Ecco una parte del testo su cui gli alunni di quinta elementare, nel precedente anno scolastico, si sono esercitati per mettere alla prova le loro abilità di analisi e comprensione di un testo a carattere “scientifico”: «Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia».

Ovviamente nell’orizzonte valutativo di un testo a risposte multiple, la semplificazione è ulteriormente ribadita, riproponendo sotto forma di risposta corretta il concetto che nei mammiferi (compresi gli uomini) le femmine hanno una posizione inferiore, il capo del gruppo è un maschio ed i maschi lottano per il potere. A quale cornice culturale può mai far riferimento un testo del genere, dove il sessismo ed il riduzionismo biologici sono veicolati da una prova nazionale? Ma quali prove rischieremo di presentare ai nostri studenti il prossimo maggio, visto che saremo all’oscuro dei loro contenuti?

Mi soffermo infine su un ultimo aspetto, che potrebbe sembrare marginale ma non lo è affatto anzi mette in evidenza non solo i limiti ma i danni che un tale sistema di valutazione può arrecare alla scuola e agli studenti che la frequentano. Mi riferisco a tutti quegli alunni che, per disabilità o per disturbi di apprendimento, non vengono messi nelle condizioni o vengono invitati a non svolgere le prove. Più che le mie parole, molto esprimono quelle di un gruppo di genitori dell’Istituto Comprensivo di Lavis (TN) che, in una lettera, tra le tante che si possono trovare nella rete o pubblicate sui giornali, scrivono: «A noi genitori che, in collaborazione con insegnanti e logopedisti, quotidianamente ci impegniamo a escogitare e attivare strategie per evitare che le difficoltà di lettura e scrittura pregiudichino il processo di apprendimento dei nostri figli, questa modalità di svolgimento dell’esame sembra frutto di grave incompetenza e ignoranza: pretendere infatti che i nostri bambini eseguano le prove scritte senza l’ausilio di un lettore, o di un supporto informatico, è umiliante e vergognoso e, pur con tutta la buona volontà, non riusciamo a capire quali motivazioni pedagogiche e didattiche supportino queste direttive. Crediamo che le frustrazioni e le umiliazioni non aiutino i bambini a costruirsi una buona autostima, ma favoriscano piuttosto l’insorgere di insicurezze e fragilità».

Ci sarebbe ancora molto da aggiungere: ad esempio sul fatto che la restituzione dei risultati ottenuti negli anni passati non ha prodotto alcuna pratica virtuosa da parte del Ministero; sul pericolo, già profilatosi in molte scuole, che l’insegnamento sia piegato ad una sorta di addestramento ai temuti test (già una grande casa editrice, la Zanichelli, ha pubblicato on line 400 quesiti per allenarsi alle prove nazionali INVALSI); sulla “richiesta” di collaborazione dei docenti in quanto le prove Invalsi rappresenterebbero un’occasione di riflessione e confronto, sempre a posteriori e a senso unico, mentre i processi di valutazione progettati ed esperiti dai docenti in anni di lavoro, in molti contesti e con diverse modalità sono rimasti spesso senza ascolto da parte del Ministero.

Spero che nel corso del Convegno si apra una discussione su questo tema perché se la matrice culturale del Liceo delle scienze umane deve muovere dalla condivisione dei saperi e degli approcci metodologici, a partire dal lavoro del Consiglio di Classe – evitando le secche dei saperi concepiti come blocchi contrapposti – deve anche giungere a delineare la complessità del contesto valutativo, tenendo appunto conto dei percorsi integrati di apprendimento, delle condizioni ambientali, delle intelligenze, della metodologia laboratoriale in cui l’apprendimento è agito nel gruppo ed è il risultato di processi di interazione.

Davide Zotti