L'intervento di Claudia Petrucci

Proprio quando l' Alternanza Scuola Lavoro viene fatta bene, e la scuola non la delega ad altri , ma la accompagna e la inserisce in un progetto formativo condiviso, appaiono i nuovi problemi. Problemi di competenze e problemi di organizzazione.

Gli studenti si calano in un'esperienza professionale di cui l' insegnante ha in genere solo conoscenze di seconda mano, e magari antiche e vaghe, e a cui rischia addirittura di non poter partecipare da vicino: tutti gli insegnanti hanno molte classi e ogni momento eventualmente libero dall'impegno in una di esse è indispensabile per affrontare le mille emergenze della vita quotidiana di un istituto. Insomma, i ragazzi vanno e noi stiamo qua.

Potrebbe sembrare addirittura una metafora “fisiologica” dell'educazione, ma così non è. Se la chiamiamo “alternanza“ non stiamo parlando del momento in cui i giovani lasciano il nido. Stiamo parlando invece di quello “stare sulla soglia” su cui si fondavano, fin dall'inizio, le esperienze di stage formativo : un processo di andate e ritorni da seguire, accompagnare, su cui e a partire dal quale sollecitare rielaborazioni critiche.

Quindi nell'alternanza gli insegnanti dovrebbero “esserci” il più possibile, anche per essere in grado di accorgersi se c'è qualcosa da aggiustare o qualche occasione da sfruttare meglio. Superare gli ostacoli organizzativi è importante , ma forse è ancora più importante superare quelli culturali, che vedono prevalere nella scuola le spinte della separatezza tra esperienze, competenze e discipline. Con l' idea diffusa quanto arbitraria che solo un corso di laurea interamente dedicato a una sola disciplina e alle sue articolazioni, e una mono-abilitazione ad esso strettamente congruente, siano i requisiti validi culturalmente (e quasi “moralmente”) per insegnare. C'è invece bisogno di affermare che anche per insegnare bene una materia non si può essere solo insegnanti di quella materia. Bisogna anche provare a fare i conti con tutto quello che c'è intorno, con i mestieri e le esperienze umane che coinvolgono quell'ambito di conoscenze, o che ne vengono illuminate.

E questo non vale solo per le materie cosiddette professionali ma per tutte.

Lo splendido resoconto didattico di Franco Lorenzoni I bambini pensano grande ci fa vedere come per insegnare qualsiasi contenuto sia indispensabile fare esperienze concrete e perfino fisiche e manuali. Una figura limitata e sedentaria che si trincera dietro il suo cosiddetto specialismo non convince nessuno, e men che meno i ragazzi.

Nella mia formazione ho avuto due esperienze privilegiate. La prima fu quando, con un gruppo di scout e compagni di scuola, dentro Firenze alluvionata, scoprimmo che la cultura e l'arte non erano le astrazioni che ci facevano soffrire in classe, ma erano un motore concretissimo che organizzava lavoro manuale, chimica, fisica, filologia e capacità di decidere. I turni di lavoro alla Biblioteca e al Vieusseux ci mandarono a caricare e stendere le pagine come in un opificio tessile, a pulirle e asciugarle come in una lavanderia, a proteggere con i fogli di carta assorbente i testi antichi, a spruzzare disinfettante in tenuta da Ghostbuster, a portare, come in una bottega artigiana,attrezzi e pennelli ai restauratori veri, che erano ragazzi poco più grandi di noi ma che sapevano dove mettere le mani.

La seconda , proprio agli inizi del mio lavoro di insegnante, fu una stagione da un fotografo, in cui imparai a usare gli strumenti delle immagini: senza di quello, anche far passare gli strumenti della parola e della scrittura mi sarebbe stato molto più difficile.