Dov’è finita la “Buona Scuola” ?

 

la buona scuola

Nello scorso novembre 2014 abbiamo partecipato, come decine di cittadini e di esponenti dell'associazionismo e  della scuola, alla consultazione indetta dal governo sul documento “la buona scuola”, cercando di sottolinearne elementi positivi e negativi, di forza e di debolezza, naturalmente dal punto di vista di una associazione professionale che si occupa e preoccupa eminentemente di formazione del personale. 

Adesso, di fronte alla bozza che sarà posta all’esame e alla discussione del Parlamento, torniamo ad interrogarci su quanto di quei buoni propositi sia realmente stato travasato nel ddl e come le premesse ivi poste siano state effettivamente recepite e trasformate in articoli di legge.

Sappiamo bene quanto in questi momenti il mondo della scuola sia attraversato da fermenti, contestazioni e proteste in risposta a molti punti considerati inaccettabili o comunque discutibili da diverse posizioni. Pur senza arroccarci in una torre d’avorio, e senza per nulla abdicare al nostro ruolo di cittadini partecipi e consapevoli, in questa sede non possiamo cedere a suggestioni personali ne’ scivolare su posizioni sindacali, ma intendiamo correttamente lasciare “a ciascuno il suo”, e quindi ancora una volta il nostro sarà il punto di vista e l’espressione di un soggetto che si muove in un ambito culturale e didattico specifico.

Partiamo anzitutto da una disamina generale dell’articolato e della sua impostazione. Si prospetta come una legge a maglie larghe, che in 24 articoli distribuiti su sette capitoli affronta “di tutto e di più”, dando delega al governo su ben 13 temi di future riforme. Scelta che appare discutibile sotto vari aspetti:

  1. Mettere insieme temi che più si presterebbero a un tavolo contrattuale e temi riguardanti curricoli e didattica espone quanto meno al rischio di affrontare superficialmente gli uni e gli altri, a prescindere da ogni altra considerazione di opportunità;
  2. Il tema delle assunzioni, in particolare, avrebbe potuto essere trattato in apposito decreto, non solo per una questione di tempi tecnici, nel cui merito non entriamo, ma anche per dare più ampio respiro e la dovuta attenzione agli aspetti che riguardano la qualità della scuola, i curricoli, la professionalità dei docenti;
  3. Il fatto di delegare il governo a legiferare sui temi vitali indicati all’art. 21, in base ai criteri qui dettati in modo spesso generico e sbrigativo, priva materie così delicate di un necessario dibattito parlamentare, bypassando in qualche modo anche il dibattito nel Paese.

Ciò premesso, puntiamo la nostra attenzione adesso su alcuni problemi più specifici.

 

Offerta Formativa.

Vediamo opportuna la sua programmazione e  pianificazione triennale (e l’inclusione nel Piano anche delle attività formative del personale) in quanto consentirebbe una progettazione di più ampio respiro riducendo il rischio di frammentazione dell’iniziativa della scuola. Ma i contenuti degli articoli 2, 3, 4 e 6 lasciano adito a varie e gravi perplessità.

  • Riservare al Dirigente Scolastico l’intera responsabilità della elaborazione del Piano significa abdicare a quella cultura della gestione condivisa che faticosamente in questi anni si stava facendo strada nella scuola, e rischia di privare l’intera comunità scolastica di quel senso di identità e di appartenenza che solo può garantire il raggiungimento degli obiettivi e la piena efficacia dell’istituzione. Questa osservazione si può naturalmente estendere all’intero articolo 7, che fa del  Dirigente Scolastico una specie di figura di Superman, poco gradita probabilmente ai Dirigenti stessi, (oltre che foriera di un contenzioso infinito ….) e sicuramente poco compensata dai benefici economici prospettati, che in tempi di “vacche magre” immaginiamo quali possano essere! Del resto la Dirigenza scolastica, zoppa e quasi abortita sul nascere perché bollata come “atipica” e normata in un’area a sé, tale rimane senza una reale autonomia finanziaria. E qui ci fermiamo, per non entrare in problematiche più squisitamente sindacali.
  • La prospettata personalizzazione dei curricoli degli studenti viene fatta passare attraverso scelte opzionali tutte aggiuntive ai curricoli della scuola, così come aggiuntiva è considerata la pur auspicabile e lodevole obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro. Val la pena ricordare Montaigne, che attraverso la rivisitazione di Edgar Morin ci ammonisce su quanto sia meglio una “testa ben fatta” piuttosto che “una testa ben piena”! Questa scuola schizofrenica  che da un lato ci esorta alle competenze e alla loro certificazione, dall’altra individua nella quantità il valore aggiunto per la formazione dello studente! Le competenze, sappiamo, si costruiscono sulla base di pochi e ben selezionati nuclei fondanti, ed è preferibile snellire ed approfondire quanto già nella scuola si fa (a partire dalla competenza nella nostra lingua italiana, sempre più pericolante!) anziché aggiungere opzionalità che potrebbero altrimenti essere alternative o comunque soddisfatte anche attraverso altre agenzie del territorio. Perciò sarebbe piuttosto auspicabile una reale riforma dei curricoli sulla base di un serio lavoro di riorganizzazione dei saperi su cui formare le nuove generazioni, in funzione di pochi ma fondamentali obiettivi in termini di competenze e di integrazione delle discipline.
  • Ci auguriamo che l’organico dell’autonomia, che ai tempi delle sperimentazioni si è rivelato una risorsa preziosa (c.d. organico funzionale) venga realmente e prioritariamente finalizzato all’arricchimento dell’offerta formativa della scuola e non costituisca invece un escamotage  per creare docenti tappabuchi buoni per tutte le stagioni, con buona pace della qualità e dell’efficacia! Preoccupa in particolare la discrezionalità dei Dirigenti circa l’utilizzo del personale di ruolo in classi di concorso diverse da quelle in cui il docente possiede l’abilitazione (cfr. art. 7, comma 3d). Si sceglie la strada delle squalificate “materie affini” invece di quella del riconoscimento delle diverse abilitazioni che le persone hanno accumulato, anche, per esempio, facendo più concorsi. Né può rassicurare il riordino delle classi di concorso previsto con successiva delega al governo, dal momento che saranno gli stessi  corsi universitari ad essere in qualche modo abilitanti, senza alcun filtro tra i corsi di laurea e la classe di concorso. Trasversalità e pluridisciplinarità si confermano sempre più necessarie per le nuove sfide dello studio della realtà complessa, ma sono strumenti delicati da affidare a personale che li sappia gestire e da curare con una formazione adeguata e continua.

 

Centralità dei docenti e Formazione degli insegnanti.

Ci duole constatare che ben poco della grande attenzione che era stata data nel documento sulla “Buona Scuola” a questi temi essenziali sia sopravvissuta negli articoli del ddl, e che neppure una delle 13 deleghe per i successivi decreti prevede di affrontarli. Dall’esame attento degli articoli della bozza (in particolare 9, 10 e 11) emerge qualche positività, ma molti sono a nostro avviso i punti discutibili e da emendare.

Vediamo positivamente:

  • l’obbligatorietà della formazione in servizio, considerata permanente e strutturale, che ci fa uscire finalmente dall’ambigua formulazione del diritto-dovere per una visione concreta nel contesto della crescita professionale;
  • la carta elettronica per l’aggiornamento, che facendo in qualche modo da contrappunto all’obbligatorietà svincola il docente da qualche preoccupazione economica nella scelta di strumenti culturale;
  • La valorizzazione dell’autonomia e delle migliori esperienze attraverso la promozione di reti di scuole (nell’ambito della riforma degli organi collegiali; cfr art. 21, comma 1, f).

Di contro, nella definizione stessa di questi punti molte sono le ombre che tuttavia permangono. A partire dalla formazione iniziale (periodo di prova – cfr. art. 9), in cui non si vede nessun elemento sostanziale di novità rispetto alla situazione attuale.

Quanto alla formazione in servizio (ma perché solo dei docenti di ruolo? Dovremmo leggervi l’utopia che tutti i docenti lo siano? O il retropensiero che il non di ruolo non abbia alcuna esigenza formativa?...), dopo tante belle enunciazioni di principio ci saremmo aspettati ben altra concretezza in questa sede. La scuola delle competenze necessita di docenti “efficaci”, formati su solide basi disciplinari arricchite di competenze trasversali e relazionali: traguardi che molti docenti raggiungono/hanno raggiunto attraverso percorsi individuali faticosi e costosi. Sarebbe ora di prevedere un sistema nazionale per la formazione, che valorizzi le esperienze fatte anche avvalendosi delle reti di scuole e dell’associazionismo professionale dei docenti e si inserisca in modo organico e coerente nel quotidiano “fare scuola”. Viceversa, in un contesto di occasionalità e frammentazione anche i benefici della carta per l’aggiornamento rischiano di rivelarsi come lo storico invito a mangiare delle brioches per chi non aveva neppure il pane!

Ci saremmo inoltre aspettati che la tanto sbandierata centralità dei docenti trovasse traduzione in atti concreti, come anche che i crediti didattici, formativi e professionali fossero considerati ai fini della progressione di carriera, appiattita tuttora sull’anzianità di servizio; ma nulla di tutto ciò rimane nel documento attuale.

È auspicabile quindi che il ddl venga attentamente vagliato e discusso nel suo iter parlamentare, senza arroccamenti di principio da nessuna parte, ma nell’interesse reale della scuola e del Paese, e che le tante voci critiche che si stanno alzando da tante parti vengano ascoltate senza pregiudiziali in uno spirito di reale democratico confronto.