Prove di re-(e)sistenza, di teatro e di libertà

di Giacomo Camuri*

camuriPerché Teatro? E Teatro nella scuola? E’ la congiuntura del presente a rendere ancor più stringente la domanda e a far emergere i sospetti e i pregiudizi che albergano in tanto senso comune. Che il Teatro costituisca una forma di spettacolo tendenzialmente marginale è fuor di dubbio. La storia novecentesca dei media è irrotta sulla scena sociale della comunicazione travolgendone in gran parte le forme consolidate in secoli d’uso più o meno lontani. Cinema, radiofonia, televisione, tecnologia digitale hanno inondato di immagini visive e sonore lo spazio e il tempo di una quotidianità che si è fatta essa stessa sempre più oggetto di spettacolo. La fortuna di un format, il reality show, la colonizzazione ambientale delle telecamere in ragione della sicurezza, la messa in rete di frammenti d’esistenze confezionati in micro-episodi che ne dilatano talvolta la banalità, il desiderio di trasgressione, l’ostentazione oscena, la capillare diffusione degli schermi piatti nei luoghi di transito sono a dimostrare, se non ce ne fosse bisogno, l’avvenuta trasformazione del mondo in un set planetario. Non c’è stanza, stambugio, deposito, non c’è vicolo, via, piazza, non c’è luogo o nonluogo che non sia potenzialmente oggi disposto ad accogliere una scena. Perché allora Teatro, una forma forse un po’ fuori moda e per certi aspetti regressiva di rappresentazione?

La scuola poi, si sa, è in condizioni d’emergenza. Una crisi strutturale l’attraversa. Le risorse scarseggiano, Gli ambienti spesso sono a rischio, necessitano di una manutenzione che non si fa. Le tecnologie, tuttavia, avanzano, premono alle porte, hanno fretta, prima o poi le scardinano, esondano tra comportamenti restii all’innovazione e conflitti procedurali. Dunque le scelte paiono obbligate: dove orientare gli investimenti, concentrare l’attenzione? La multimedialità ha i suoi costi e le sue metodiche, i suoi rituali di iniziazione e i suoi processi coerenti di formazione. Perché tornare a far Teatro quando l’urgenza dello stare al passo con i tempi dettati dall’economia e dal mercato richiedono capacità e competenze che di primo acchito paiono di tutt’altro genere? Il corpo si minimalizza, le mani si riducono alle dimensioni delle dita, lo sguardo si contrae alla misura dello schermo, l’ambiente si rovescia, come Alice, nell’iperspazio della rete, la mimica facciale si traduce in icone emozionali, l’ordine del Discorso prende nuove strade e nuovi formalismi linguistici attendono di essere appresi e utilizzati. Per molti oggi nella scuola e fuori della scuola potrebbe risultare uno spreco di denaro o un non senso l’investire nella realizzazione di laboratori scolastici di Teatro. Perché allora insistere, o meglio, resistere nel continuare a promuovere fin nei primi luoghi deputati all’educazione l’esercizio o la disciplina del Teatro?

Le ragioni di tale resistenza − di una resistenza necessaria parlava già alcuni anni fa uno dei massimi studiosi di mondi contemporanei Marc Augé nell’epilogo de La guerra dei sogni. Esercizi di etnofiction − sono molteplici e di un duplice ordine. Vi sono ragioni legate alle circostanze storiche e ragioni più strutturali, connesse alle condizioni d’esistenza. Ne prendiamo in considerazione solo per cenni alcune, forse le più esemplificative. Il corto circuito, in cui si trovano irretiti non da oggi economia e mercato dei paesi così detti avanzati, con l’aumento in picchiata della disoccupazione non solo giovanile a seguito della crescente disarticolazione delle imprese artigianali e della messa in mora di consolidati modelli industriali, colpisce nel dettaglio stili di vita, rivoluziona relazioni assodate, porta allo scoperto interessi e responsabilità, smuove in profondità emozioni e risentimenti, fluidifica in modo inatteso status e ruoli sociali, genera incertezza e fragilità da cui si evincono i segni certi e di lunga durata di una crisi di sistema che interpella a tutti i livelli, personali, interpersonali, istituzionali una rimessa in gioco di valori di Senso. Una rimessa in gioco che non può venire dal cielo ma da assunzioni di responsabilità, da valutazioni dei rischi, da una riscoperta dei valori della sobrietà e della partecipazione, come Giorgio Gaber cantava con profetica lucidità. Una rimessa in gioco che non compete solo a generazioni d’adulti, fautori e vittime di tanto disastro, ma ancor più richiede una forte azione educativa, centrata, come ci hanno insegnato le culture dell’iniziazione giovanile, relegate il più delle volte nella sfera dell’arcaico e del primitivismo, sul guadagno di un’autonomia reale, sullo sviluppo di competenze e di capacità di rischio, sulla costruzioni di personalità complesse, sulla dedizione a imprese collettive. E qui si pone il Teatro con la sua storia − una storia intima, pregnante, nutrita dalla prossimità ai drammi della vita dai tragici greci agli autori dei nostri tempi, basti pensare a Pirandello, a Brecht, a Testori, a De Filippo, a Fo − e con il suo carrozzone nomadico di linguaggi, di arti, di strumenti e oggetti di scena. Proprio il Teatro, a dispetto di molti, è forse l’esperienza formativa ancora oggi più completa per la complessità di condizioni che mette in gioco: non separa la voce dal corpo, il corpo dalle emozioni, le emozioni dall’intelligenza che sa cogliere negli attimi di tempo e nelle opportunità di spazio il giusto avvio o il coerente proseguo per un agire in scena, crea relazioni significative tra individui che si integrano ricchi delle loro diversità nell’appartenenza a un corpo comune, accresce equilibrio laddove la tensione può sfociare in conflitto, abitua al rischio, s’appella al senso critico, apre alla scoperta e all’interpretazione di universi d’arte, di musica, di letteratura altrimenti sempre altri (è vera scuola!), incita all’intraprendenza e alla creatività. Ma ecco farsi strada un secondo ordine di ragioni, potremmo dire, meta-storiche, codificate nell’architettura e nelle dinamiche dell’esistenza, aspetti da non perdere di vista nella progettazione dei percorsi formativi pensati per le diverse stagioni della vita.

Vi è una connaturale solidarietà tra corpo e teatro. Ad un’attenta osservazione, in linea con le analisi di un altro grande maestro del pensiero filosofico del nostro tempo Jean-Luc Nancy, il corpo è «corpo teatro», da qui il titolo del saggio edito in Italia nel 2010. Il corpo, egli afferma, non consiste semplicemente in un “essere” − “quale che sia il significato che si voglia attribuire a questa parola”− il corpo in se stesso è già molto di più: è “presentazione”, porsi, venire in presenza, è a ben vedere articolazione di “un essere che appare e nel suo apparire è da sempre un esser- che implica la compresenza − distanza, prossimità, interazione − di altri corpi”. Vi è dunque una teatralità che procede dall’esistenza e con l’esistenza, da quell’essere che “dà segno di se stesso, che si dà a sentire non in una semplice percezione ma come densità e come tensione”. Una teatralità che si ricapitola ogni volta che si viene al mondo, ogni giorno all’aprirsi delle palpebre. Ma non già perché il mondo sia uno spettacolo, così com’è non lo può essere. Ma per le dinamiche interne dell’esistenza che è un mettersi in scena, un avanzare da un punto immateriale, da un punto di fuga o da uno sfondo oscuro come è per la visione che si dà a partire da una macula, da un punto cieco. Una teatralità che appare in un desiderio, in una pulsione di pro-getto, in un venire alla presenza in maniera semplice e discreta di un soggetto che si mette in scena dinnanzi al sipario alzato su quell’oscurità della dimensione più profonda e nascosta del se stesso. Il corpo è propriamente , scrive Nancy, “ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi.” E l’avvicinarsi del corpo assume i caratteri della Creazione, del delinearsi del dramma che attraversa il cosmo e l’esistenza e che è proprio dell’azione che nel suo compimento porta dentro di sé il senso di un’attesa. Nel suo presentarsi il corpo così si apre e si carica di tensione, la tensione della parola, la tensione dei sensi, la tensione stessa della pelle. In Teatro tutto il dramma del corpo, del suo farsi Creazione si ricapitola in modo esemplare. Per questo Paul Claudel faceva dire a un attrice: “Vale la pena di andare a teatro per vedere che accade qualcosa. Capite! Che accade per davvero! Che comincia e finisce!” Ciò che comincia e finisce, e mai potremmo vedere senza il Teatro, è il senso del dramma completo della nostra esistenza. Tornando alla scuola e ai suoi laboratori potremmo dire, parafrasando Claudel: capite che in quel tempo, apparentemente sottratto alle materie, e in quegli spazi ricavati qua e là per le scuole, a dispetto talvolta dei bidelli che inorridiscono al pensiero delle sedie e dei tavoli spostati, è in gioco la partita educativa più importante, la possibilità di portare a coscienza, ad una coscienza incarnata, sempre più difficile da trovare sul terreno della finzionalizzazione imperante, l’enigma del corpo con il suo labirintico intreccio di dispositivi che compongono la mente che ogni giorno tesse la tela del mondo, Da qui la speranza di libertà e di nuove vie d’uscita.

 

 

* Già Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Religiose dell'Università Cattolica di Milano, addetto alle esercitazioni e culture della materia presso il Dipartimento di Filosofia della stessa Università, insegna Filosofia e Scienze Sociali presso il Liceo Statale Maffeo Vegio di Lodi. Si occupa principalmente di antropologia simbolica e di antropologia del paesaggio. Da ventisei anni coordina la Rassegna di Teatro delle scuole di Lodi. Ha fondato l'Associazione Laboratorio degli Archetipi e è socio dalla fondazione della Cooperativa archeologica Le Orme dell'Uomo (Valcamonica). Ha partecipato alla nascita della Rete Passaggi ed è socio di SISUS.