Una biografia di spessore

 

UNA BIOGRAFIA DI SPESSORE

Racconto a epilogo aperto di Anna Sgherri

Si pubblica con l’autorizzazione dell’Autore per gentile concessione del LICEO “ARIOSTO” DI FERRARA

anna sgherri

Ci vuole una biografia di spessore come quella di Anna Sgherri per leggere i segni dei tempi.

La sua stagione di lavoro ha conosciuto rilevanti processi di trasformazione dei quali si sono rese protagoniste le minoranze attive dei docenti e le scuole dell’innovazione. Per molti professionisti dell’istruzione la sua attività ha rappresentato il volto inedito di un’ Amministrazione scolastica che ha valutato criticamente il tradizionale centralismo burocratico per trasformarsi, non senza contraddizioni e nuove inerzie, in strumento di elaborazione partecipata delle politiche formative del paese.

Riflettere sul suo profilo professionale e raccontarne la trama complessa e coinvolgente richiede di non cadere in automatismi mentali e in trappole emotive che produrrebbero una sindrome da Antologia di Spoon River. Al contrario, analizzare il contributo di Anna Sgherri alle politiche del riformismo scolastico può diventare un utile esercizio di contrasto alla diffusa attitudine al pensare riduzionistico, quando si parla di scuola.

Se la consapevolezza che il futuro del paese comincia sui banchi di scuola diventa un indirizzo politico di governo, allora il tempo è maturo per tentare di realizzare disegni di trasformazione del sistema educativo. Accadeva negli anni Novanta, in un contesto che cercava di ridisegnare il rapporto tra istruzione e società e nel quale Anna Sgherri individuava le condizioni idonee per una presenza incisiva, in coerenza con la sua formazione politico-culturale. Perché Anna Sgherri ha creduto appassionatamente nella scuola pubblica. L’avverbio, trasformato in aggettivo, ha caratterizzato tutta la sua attività professionale. Appassionati sono stati i suoi interventi per valorizzare il ruolo delle scuole e sostenere il difficile mestiere degli insegnanti. Aveva un concetto alto di comunità scolastica, pensata come, sono parole sue, laboratorio di idee, centro di discussione e di confronto, sede di elaborazione di progetti innovativi che investano anche la realtà sociale in cui l’istituzione è radicata.

Non deve sorprendere che, su questi temi, si sia trovata anche in minoranza. Talvolta, in solitudine. E’ la condizione che accomuna i veri innovatori. In minoranza, ad esempio, rispetto ai suoi stessi colleghi, se interpreti della cultura degli adempimenti e delle procedure e se propensi a condurre gerarchicamente le relazioni scolastiche. Ma anche nei confronti di presidi che concepivano in termini leaderistici la nuova funzione di dirigente scolastico, mortificando, a suo parere, l’obiettivo della costruzione di un’ autorevole leadership educativa e trascurando l’esigenza di realizzare modelli di organizzazione scolastica a responsabilità condivisa. Infine, quando incontrava realtà scolastiche nelle quali il clima di lavoro tra i docenti, la cura degli apprendimenti, le relazioni con il territorio, non corrispondevano alla sua idea di scuola come capitale sociale e formativo.

La sua indole affrontava le difficoltà come avesse fatto proprio il detto segnare dove arriva l’ombra è come segnare dove arriva la luce. Un modo per dire: andiamo avanti noi che ci crediamo. Considerava naturale ascoltare, assentire, dissentire, non limitandosi a mormorare.

Certamente la determinazione con cui la classe politica guidava il cambiamento aveva legittimato le minoritarie posizioni degli innovatori presenti nelle scuole e contenuto la diffidenza o l’ostilità dei docenti più tradizionalisti. La maggiore agibilità politica semplificava ma non riduceva i compiti del gruppo di regia dei processi di cui faceva parte Anna Sgherri. Era tempo non più di sollevare i problemi, ma di porli. Era anche chiaro che, per realizzare il cambiamento, occorreva coinvolgere e convincere. Serviva evitare una malintesa difesa della tradizione culturale che, con le parole di Gustav Malher, andava interpretata come custodia del fuoco, non adorazione della cenere. Né si poteva sottovalutare che le politiche di innovazione avrebbero creato problemi alle scuole, perché è come chiedere ai marinai di riparare la nave mentre sono in navigazione. Ma la vera novità politica, la svolta radicale, consisteva nell’avvio del processo di decentramento del sistema di istruzione, con l’affermazione del nuovo paradigma dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Pertanto dalla fine degli anni Ottanta al duemilauno si presentava al mondo della scuola l’occasione per svolgere un ruolo attivo nella trasformazione del sistema formativo. Naturalmente non poteva bastare la partecipazione senza aggettivi. Per garantire una discussione all’altezza dei difficili problemi da affrontare, faceva la differenza lo spessore delle idee che si confrontavano. Condizioni che non si sono sempre realizzate.

Per migliorare la qualità del lavoro in classe occorre promuovere buone politiche di aggiornamento del personale scolastico. Anche allora questa convinzione non mancava di sostenitori, nella classe politica come nell’Amministrazione. Tra loro Anna Sgherri che, per le sue riconosciute competenze, venne incaricata del coordinamento scientifico di tre aree di rilevanza culturale e curricolare come le scienze umane e sociali, la filosofia e la didattica della storia e del Novecento. Non erano certamente mancate in passato iniziative finalizzate all’aggiornamento del personale e all’innovazione metodologico-didattica. Si erano privilegiati, di fase in fase, i contenuti culturali, le metodologie, i modelli di organizzazione degli spazi educativi. Grande assente era un disegno complessivo delle politiche formative e il governo dei processi di innovazione per cui, le esperienze fatte dai docenti, finivano per essere episodiche e frammentarie. Forse per questo i risultati raggiunti erano stati piuttosto modesti. Non era ancora maturata la consapevolezza, molto presente in Anna Sgherri che, sono parole sue: Se il nodo strategico dell’innovazione è rappresentato dal docente, quale risorsa umana e professionale nella quale investire per dare impulso e guida al processo complessivo, anche la strategia dell’aggiornamento deve caratterizzarsi per un forte coinvolgimento del soggetto e per una sua attiva partecipazione alla progettazione del proprio itinerario di formazione. Per questo si era cominciato a promuovere il cambiamento inaugurando uno stile che accompagnava le persone, sosteneva i processi, valorizzava le istituzioni scolastiche. Il nuovo modello organizzativo delle reti territoriali delle scuole che iniziava ad avere una ragionevole ed efficace diffusione, era l’espressione di una strategia che, rispetto al passato, sollecitava il protagonismo delle scuole rendendole sempre più affidate a se stesse. Un modello a basso tasso di competizione, dialogante e cooperante. Per questa ragione sui cantieri di lavoro di Anna Sgherri avrebbe ben figurato il cartello Qui si abita l’autonomia.

Un vero e proprio laboratorio di ricerca culturale e didattica: questo sono stati i seminari dell’indirizzo di scienze sociali. Con dichiarate finalità istituzionali, perché in stretta relazione con le politiche ministeriali impegnate a porre temine al ciclo storico dell’istituto magistrale, e quindi a favorire l’elaborazione di un nuovo asse culturale per l’indirizzo di studi.

Scegliendo di agire sulla base delle ragioni del perché piuttosto che delle ragioni dell’altrimenti si è consumata un’autentica rottura epistemologica rispetto alla tradizione e all’egemonia gentiliane. Il risultato del coraggioso fuggire avanti è stato un percorso di scienze sociali tra i più avanzati indirizzi di studio dell’area liceale, insieme al grande merito di avere sprovincializzato il dibattito culturale. Con impostazione weberiana Anna Sgherri aveva intuito che per indurre al cambiamento era necessario creare un quadro interpretativo totalmente altro dal precedente. E importante è stato il contributo dei docenti delle scuole dell’innovazione, professionisti per i quali la declinazione di formazione era conoscere insieme.

Ma può piovere all’insù? Viene da pensarlo a valutare le conseguenze provocate dal mutamento di quadro politico avvenuto nel duemilauno, con la messa in discussione del lavoro fatto e l’affermarsi di un conservatorismo educatamente inespressivo che rimetteva in circolazione soluzioni passatiste. Vecchie monete che, col tempo, avevano perso di peso. Da allora l’innovazione è stata trattata con parole d’aria e di vento. C’erano tutte le condizioni perché prevalesse un clima di autocommiserazione e di ripiegamento su se stessi. Non fu così per Anna Sgherri. Nel suo caso non si trattava unicamente di correttezza istituzionale, valore peraltro da lei costantemente praticato. Era determinata nel pensare che i buoni insegnanti sono in grado di salvare anche le riforme scolastiche mediocri o cattive. Non solo. Le norme dell’autonomia avrebbero consentito di mettere in sicurezza i principali spazi didattici e organizzativi delle scuole. Ma, per come le scuole percepivano l’autonomia, le considerazioni di Anna Sgherri rappresentavano un generoso auspicio piuttosto che una realistica previsione. Infatti l’autonomia non era riuscita a farsi apprezzare dagli insegnanti e le sue norme non facevano parte della cassetta degli attrezzi scolastici. Principalmente, perché i suoi caratteri di vera e propria riforma istituzionale, avrebbero avuto bisogno di sostegno, soprattutto nella fase di prima realizzazione. In altri termini, l’autonomia si relaziona con la cultura della lunga durata. Così, dopo il duemilauno, in assenza di un contesto favorevole, ha vissuto come il fiore sul vulcano.

anna sgherriTra i soggetti che hanno collaborato a lungo con Anna Sgherri, un ruolo attivo lo ha svolto il liceo Ariosto, in particolare perché sede dei seminari della Città dei filosofi. Per Anna Sgherri un’avventura intellettuale che si sviluppava nella città in cui l’Ariosto aveva cantato le audaci imprese. Ne è prova il Manifesto della Città dei filosofi del millenovecentonovantasette, che ha avuto larga diffusione e ampie adesioni. Un distillato di intelligenza professionale e di preparazione culturale che rivela lo sguardo sottile con cui si possono analizzare le dinamiche dell’apprendimento in quella disciplina. Scritto con un linguaggio essenziale e comunicativo come capita soltanto alle dichiarazioni che sono il risultato di una costante attività riflessiva e di un’attenzione alla qualità del lavoro d’aula. In controtendenza rispetto a certa produzione dello stesso periodo, anche d’autore, che, a leggerla, si rischiava un leggero effetto urticante. L’integrazione tra le competenze dell’insegnamento liceale e di quello accademico, ha caratterizzato interamente l’iniziativa. Un itinerario che ha approfondito temi classici del dibattito filosofico e della didattica della filosofia, ma ha percorso anche piste di ricerca piuttosto originali. Ad esempio l’insegnamento della filosofia al biennio della secondaria, i nuovi media nella didattica della filosofia, una filosofia per i bambini della scuola primaria. Gli appuntamenti annuali della Città dei filosofi hanno rappresentato un riferimento per una comunità di docenti liceali che vedeva, nei seminari ferraresi, un’occasione di crescita professionale. Favorita dal singolare contesto che Anna Sgherri aveva saputo far maturare. In ogni caso la costruzione di percorsi didattici da verificare nel lavoro in classe, costituiva per tutti i partecipanti uno spazio di confronto non abituale per la qualità culturale raggiunta. Era forte in Anna Sgherri la convinzione che bisognasse lasciare ogni traccia possibile, perché ciò che non è testimoniato e trasmesso, è destinato a non entrare nella memoria collettiva. Per questa ragione l’intero percorso dei seminari è stato documentato con molta cura nella collana dei Quaderni del Ministero dell’Istruzione. Un racconto della capacità delle scuole di produrre cultura e appassionarsi alla ricerca. La forte attenzione alla curvatura didattica degli approfondimenti culturali era un obiettivo così organico ai seminari ferraresi da determinarne la stessa modalità organizzativa e di conduzione. E’ risultato sempre problematico accertare il grado di trasferibilità e di ricaduta dei prodotti della Città dei filosofi. La via empirica dell’ascolto e dell’osservazione ha tuttavia restituito apprezzamenti e condivisioni, a cominciare dalle richieste di partecipazione, sempre superiori alle disponibilità, e dalla volontà di molte scuole di essere inserite nel circuito di distribuzione dei materiali dei seminari. Tutte ragioni che dovrebbero concorrere a evitare che i quaderni della Città dei filosofi finiscano semplicemente per essere conservati in un certo numero di silenziose biblioteche scolastiche.

Non vi è alcun dubbio che Anna Sgherri abbia sempre curato ogni sua iniziativa senza risparmiare energie intellettuali e fisiche, pertanto non è sensato chiedersi in quali di esse si riconoscesse maggiormente. Tuttavia non si è persa la memoria di lei che percorreva gli spazi del liceo Ariosto in cui si svolgevano i lavori dei seminari ferraresi con l’espressione di chi sente sul proprio viso le carezze dell’aria di casa.

C’è un modo semplice e certo per suscitare un clima eracliteo di aspro scontro dialettico: avviare una discussione sull’insegnamento della storia. Quella contemporanea garantisce maggiore vivacità di interventi. Capita perché la storia ha un’inevitabile dimensione pubblica e un discutibile uso politico, infatti il suo apprendimento non riguarda solo i contenuti e i metodi di una disciplina, ma concorre alla formazione civile e valoriale dei cittadini. Puntualmente nel millenovecentonovantasei si sollevarono critiche feroci per l’entrata in vigore del decreto ministeriale sul Novecento. Nessun argomento contrario venne risparmiato, incluso il danno alla storia dei secoli precedenti, per avere riservato al Novecento l’anno finale del ciclo secondario. In un acceso contesto in cui un colpo di lingua rompe le ossa, anche ad Anna Sgherri era toccato fare la sua parte per non ridurre tutto ad un confuso brusio del pensiero. Era soprattutto il mondo extrascolastico che voleva dire qualcosa. Ma, aveva qualcosa da dire? Prevaleva l’ idea che bastasse essersi seduti per qualche anno sui banchi di scuola per sentirsi autorizzati ad intervenire sulle strategie dell’apprendimento storico. In alternativa, avere frequentato il liceo, ma quarant’anni prima. Un paese di tante piccole volpi e di pochi porcospini. Un contesto che si prestava alle considerazioni di Archiloco, secondo il quale la volpe sa molte piccole cose, ma il porcospino sa una cosa grande. Ciò nonostante le iniziative per innovare metodi e contenuti della storia, hanno avuto uno sviluppo incalzante. A partire dal millenovecentonovantatre Anna Sgherri aveva avviato i seminari nazionali di Latina che affrontavano le metodologie della ricerca storica e della didattica. Nel millenovecentonovantasei, con il progetto ministeriale La storia del Novecento, nascevano in ogni provincia le commissioni di storia, con il compito di sostenere l’innovazione didattica nei territori, anche attraverso la formazione di nuove figure tutoriali. Contemporaneamente si sperimentavano, a partire dagli istituti professionali, i nuovi programmi di storia. In sostanza, la stagione dell’insegnabilità del Novecento era cominciata. E, tra le rilevanze storiche di quel secolo, la Shoah. Anna Sgherri si occupava del tema dal millenovecentonovantotto, in un gruppo di coordinamento nazionale ed era stata designata membro di un’organizzazione internazionale con sede a Stoccolma. In questa città si svolgeva nel duemila il Forum sull’Olocausto con la partecipazione di quarantasette paesi da tutto il mondo. Lei rappresentava l’Italia come capo-delegazione. Non passava un anno e il Parlamento italiano istituiva, con legge, la giornata della Memoria, che era stato il principale impegno sottoscritto dalla delegazione italiana nel documento finale di Stoccolma. Per risultati di questa rilevanza, molti avrebbero vantato crediti. Non Anna Sgherri che non mutava l’orizzonte del proprio lavoro. C’era bisogno di dimostrare ai molti perplessi che anche lo studio di un secolo così caratterizzato da storie estreme come il Novecento, liberato dai condizionamenti ideologici e analizzato attraverso differenti interpretazioni storiografiche, avrebbe fatto bene agli studenti. Soprattutto occorreva proseguire nella formazione-aggiornamento degli insegnanti, ai quali chiedeva disponibilità e preparazione specifica, perché il modello della ricerca, portato fino alle soglie della didattica quotidiana, presuppone un coerente stile professionale che si costruisce nel tempo con la fatica e lo studio anche personale. Obiettivi ambiziosi che andavano sostenuti intrecciando, come si fece, approfondimento, ricerca, didattica. Anna Sgherri non si limitava a sollecitare stili collaborativi, ma li praticava con convinzione. Ogni suo seminario era, in effetti, una mobilitazione di soggetti culturali, professionali, istituzionali, ciascuno dei quali portatore di contributi spesso originali, ma, soprattutto, di interpretazioni plurali. Tutto questo andava a rafforzare l’autonomia didattica di ciascun docente e contribuiva a superare la didattica tradizionale, dalla lezione frontale al libro di testo.

Ma i tempi della scuola non coincidevano con i tempi della politica. Era questo il cono d’ombra sui cantieri dell’innovazione, la cui consapevolezza minava l’ottimismo della volontà di Anna Sgherri. Platone aveva usato parole severe nei confronti dei processi di crescita guidati dall’impazienza, tanto da paragonare i loro esiti alla sterilità dei giardini delle feste di Adone. Era per i tempi naturali. Quelli che non sono stati concessi alle scuole. Che, sollecitate in un primo tempo a dare rapida attuazione ai cambiamenti, in seguito si sentivano imporre di fermarsi e di tornare indietro. Turbolenze politiche come fattore strutturale, dal momento che, anche in un tempo post-ideologico, un’idea di scuola è pur sempre un’idea di società. Così i cambiamenti del mondo scolastico non procedono mai per salti, secondo la teoria delle catastrofi, ma a spirale. Si va avanti, poi indietro, poi avanti, dove l’andare avanti è tornare indietro per andare avanti. Un ritmo analogo a quello delle processioni spagnole. Vito Mancuso sostiene che le istituzioni e i sistemi, così come capita agli individui, contengono più di quello che appare in superficie. C’è da credergli, perché nella scuola è molto il sommerso positivo, che Anna Sgherri interpretava come fase ciclica del fenomeno carsico educativo. Per questo invitava a guardare i processi di innovazione con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Ma a cosa serve darsi un orizzonte dal momento che, anche ad inseguirlo, non lo si raggiunge mai? A continuare a camminare. Perché quello che conta-aveva scritto-è avere chiara la direzione e credere nella forza delle idee. Camminare dunque spinti dalla curiosità intellettuale come forza allegra, che è sempre alla ricerca di nuovi inizi per affermare i valori del territorio educativo.

Il sentire laico di Anna Sgherri non poteva cedere alla tentazione di considerare del tutto consolidati gli esiti della sua attività. E forse solo la sensibilità poetica può immaginare che quando la neve sarà sciolta, si andrà in cerca del sentiero tracciato. Ma, e se? E se la stagione dei cantieri dell’innovazione non si fosse interrotta? E se l’autonomia didattica avesse avuto tempo a disposizione? E se le minoranze attive dei docenti non fossero state delegittimate? E se….. Vero. La storia non si può fare con il se, tuttavia un racconto virtuale e parallelo può diventare un esercizio utile a valutare il presente e, magari, a capire che le persone di quella stagione cercavano, come fanno i poeti, di cantare il domani. Oggi sembra essere tornata l’attenzione sui temi dell’istruzione. Giusto in tempo per ricordarsi che non si costruisce senza punti di riferimento. D’altra parte circola una storia singolare: si racconta che, proprio mentre crescevano le difficoltà per le scuole, accadeva qualcosa di simile a ciò che succede poco prima della grande migrazione. Gli uccelli migratori si cercano i compagni di viaggio per condividere e superare meglio le difficoltà della rotta. E si sa che le storie più belle sono proprio quelle a epilogo aperto.

 

Ferrara 27 ottobre 2015

Giancarlo Mori
preside del liceo Ariosto dal 1990 al 2006