Fragilità e destino: l'anima delle coste (Giacomo Camuri)

Per un’ermeneutica dei luoghi

Giacomo Camuri

 

Giacomo CamuriPuò ancora avere senso parlare dell’anima dei luoghi e in particolare dell’anima delle coste in un tempo di forti processi di pianificazione territoriale tuttora ispirati ad una concezione razionalistica degli spazi? L’erosione crescente delle coste dovuta ai cambiamenti climatici e l’impoverimento degli habitat di ampie zone costiere soggette ad enormi pressioni antropiche non mostrano tutta la fragilità di un modello di ragione che ha espunto dalla storia degli uomini il problema stesso dell’anima?

Nella fragilità delle coste si riverbera in parte il dramma del mondo che progressivamente ha visto disgiungersi e decomporsi in forme patologiche le relazioni vitali tra uomini e ambienti. Nello sguardo delle coste il mondo si allontana dalla chiarezza e dalla distinzione delle sue rappresentazioni obbiettivanti, si palesa in un denso tessuto cicatriziale costruito più in profondità che in estensione, più fitto di cancellazioni che di linearità. Non potrebbe essere allora la stessa patologia ambientale, come propone James Hillman,1 a richiamare l’attenzione sulla realtà di un’anima che dice nella voce dell’oblio l’urgenza di una revisione epistemologica che possa riguadagnare una diversa esperienza del vivere e dell’abitare il mondo? In un’epoca di emergenze dominata dalla crescente attenzione ai problemi della salvaguardia degli ambienti costieri2 potrebbe risultare di un certo interesse ripercorrere nello spazio del pensiero delle origini e nelle trame stesse della lingua il reticolo di significati che si sono depositati nella memoria delle coste. La riscoperta di un orizzonte semantico strutturalmente radicato nelle coste potrebbe gettare nuova luce sulla storia dei paesaggi costieri e rinvenire al fondo dell’ontologia stessa dei luoghi gli intrecci che uniscono fenomeni fisici, forme spaziali e esperienze di pensiero.

 

 

1. Nell’aurora del corpo

E’ inscritto nella parola stessa che le coste siano inalienabili custodi di relazioni vitali. Basti pensare alla familiarità della parola costa con la pratica quotidiana delle relazioni spaziali: come non ricordare la versatilità di accostare e accostarsi, verbi indicanti azioni fondamentali nella dialettica dell’esistenza e nella costruzione dell’esperienza, che Jean Piaget, ad es., ascrive con l’intero processo di formazione dell’intelligenza ai due principi basilari dell’assimilazione e dell’accomodamento che a ben vedere si accordano all’ordine dell’accostare e dell’accostarsi3.

Ma ancor più sorprendente è la storia etimologica della parola, molto diffusa con il significato di costa di monte e di mare nelle lingue romanze a partire forse già dalla fine del X sec.: il dizionario del Devoto rammenta il legame tra il latino costa e la parola dello slavo antico kostĭ ‘osso’, risalente a un più antico ost- ‘osso’. L’inequivocabile rimando a una dimensione strutturale della corporeità affiora dai numerosi significati, che la parola veicola accanto a quelli di sponda, di zona di terraferma prospiciente il mare, di regione che si affaccia su di esso. L’anatomia domina e plasma alla radice la parola domiciliata ormai in molti lessici, come insegna il Grande dizionario italiano dell’uso curato da Tullio De Mauro, dalla geografia alla botanica, dall’architettura alla biblioteconomia, dall’agricoltura alla zoologia e alla medicina.4

Nell’immagine aurorale di un osso, che dà forma, spessore e sostegno ai corpi, la parola nel crogiolo delle antiche lingue dell’Occidente ha creato lo spazio di una potente metafora, che ha saputo congiungere nell’intimità di un unico sentire empatico l’articolata compattezza del vivente nella diversità delle sue manifestazioni interne e esterne. Già Ernst Cassirer nel volume della Filosofia delle Forme Simboliche dedicato al Pensiero mitico aveva ricondotto alla trama dei vissuti emozionali del corpo e all’organizzazione della sua specifica fisicità l’origine dei processi di simbolizzazione del mondo. In particolare aveva osservato come il pensiero mitico, forma nascente del pensiero in quanto tale, nella sua tendenza a negare e a distruggere distanze abbia creato per millenni sistemi di corrispondenze, rinvenibili anche a ridosso dell’Età dei Lumi, che ben trovano espressione nelle più diverse forme di anatomie magiche e di geografie e cosmografie corporee.

L’indagine di Cassirer si era allora soffermata sulle analogie che si rincorrono ad es. tra gli inni vedici con la nascita del mondo dal sacrificio del corpo di Purusha, la carta del mondo contenuta nello scritto ippocrateo sul numero sette, ove la terra viene presentata come un corpo umano con una testa, il Pelopponeso, una spina dorsale, l’Istmo, e un diaframma rappresentato dalla Ionia, o ancora lo schematismo spaziale degli Zũni, tribù degli indiani d’America.5 Come per il linguaggio, osservava Cassirer sulla scorta di Kant, vale il principio che le espressioni dell’orientamento vengono solitamente ricavate dall’intuizione che si ha del proprio corpo, così ad un livello di maggior complessità sul piano della visione originariamente mitica e poi religiosa del mondo non ci si può aspettare altro che la costruzione della totalità degli universi prenda similmente le mosse dall’ambito ristrettissimo dell’esistenza sensibile-spaziale per ampliarsi solo poco a poco e con gradualità. «Il corpo dell’uomo e le sue membra ‒ si legge nel Pensiero mitico ‒ costituiscono il sistema di riferimento a cui vengono riportate tutte le altre distinzioni spaziali ».6

Dunque le coste: metafore per terre che affiorano dalle acque e vi si inabissano, rinserrando le volumetrie della terraferma in fianchi dalle morfologie variabili, immagini predisposte dal linguaggio per dare forma al mondo in origine racchiuso nel sentirsi corpo-osso dell’uomo il cui sapere sarebbe rimasto in parte inesplorato se quei particolari lembi di terra e di mare non ne avessero espresso le potenzialità. E si sa quanto per l’antichità l’osso simboleggiasse la parte più resistente e imperitura della vita, se solo estrapolando dalla tradizione biblica ci si sofferma sul significato di due racconti posti ai suoi antipodi: la creazione di Eva dalla costa di Adamo7 e la parte terminale del racconto della crocifissione in cui si attesta secondo una profezia che al Nazareno destinato a risorgere non furono spezzate le ossa delle due gambe8. Così in forme vitali e corporee le coste s’aggettano sulla storia dell’uomo con il linguaggio sinuoso, discontinuo, frastagliato, interrotto della loro diversità.

 

 

2. La trama nascosta

Se tuttora, scrive Enzo Pranzini in La forma delle coste, rimane aperta la definizione di area costiera per la complessità dei fenomeni fisici e delle componenti geopolitiche, che si distribuiscono tra entroterra e fasce di mari antistanti, non può sorprendere che le coste continuino ad essere una sfida epistemologica per le scienze naturali. Il fatto che «non esistono due tratti costieri che non si differenzino l’uno dall’altro per una qualche caratteristica»9 ne inficia uno degli aspetti fondamentali: «la classificazione degli oggetti di studio secondo precisi criteri distintivi ed esclusivi».10 Non si può dire che le classificazioni delle coste avvicendatesi dalla prima proposta nel 1888 da Suess abbiano raggiunto risultati del tutto soddisfacenti nonostante le complesse ricognizioni, da terra e dal largo, secondo i principali punti di vista assunti dalla geomorfologia, lo studio della forma e lo studio dei processi e dell’energia in accumulo.11 «La realtà è che la forma di ciascun tratto di costa dipende da una molteplicità di fattori che interagiscono tra di loro in modo ogni volta diverso e per giunta variabile nel tempo».12

Ciò che per le scienze della terra costituisce un problema di identificazione, un paradosso, l’irripetibile e irriducibile identità delle coste potrebbe postulare un diverso paradigma conoscitivo, memore della valenza gnoseologica delle metafore. Si pensi solo all’importanza che esse hanno avuto nella storia del pensiero contemporaneo con l’opera di Freud e di Nietzsche. Rimanendo nell’ambito della metafora del corpo potremmo così ascrivere il carattere più saliente delle coste all’unità-diversità di un macro corpo virtualmente depositario del gioco di tutte le possibili relazioni vitali del mondo. Non è difficile riconoscere nelle coste gli elementi essenziali dell’architettura del globo, quasi radici del vivente che affondano le loro ramificazioni in uno straordinario equilibrio di forze in contrasto. Là dove mare, terra e aria s’incontrano e nelle correnti del vento talvolta la diversità degli elementi si contrae in vorticose regressioni verso l’indifferenziato, straordinaria e continua è la metamorfosi: tra sabbie, in cui la materia si raffina, e fenditure e voragini, in cui la compattezza delle rocce si disgrega, brulica la biodiversità.

Laboratori alchemici della vita, le coste si allungano in corpi che paiono alludere all’ordine di un linguaggio riflessivo, enigmatico, immaginario. La diversità delle coste non è altro che un molteplice che si raccorda in una trama nascosta, un paradosso che richiama la riflessione cosmologica di Eraclito che agli inizi della storia del problema della Verità aveva apoditticamente rilevato che «la trama nascosta è più forte di quella manifesta».13 L’attrazione che le coste esercitano non potrebbe altrimenti comprendersi se non in riferimento ad una strutturale disposizione delle loro forme a far emergere un’interiorità che sembra alimentare infinite possibilità di pensiero, un’anima che orienta gli sguardi verso un orizzonte di fuochi immaginativi. Si ricordino a questo proposito le molte divinità femminili che la mitologia greca ha fatto proliferare sui paesaggi costieri14 in continuità storico-simbolica con la fase del processo di metaforizzazione corporea del mondo segnata dall’egemonia della figura di una grande dea.15

Allo stesso modo si potrebbe rilevare una disposizione ontologicamente sapienziale nella forma delle coste: la loro peculiare diversità sembra ben alludere al contenuto di un altro frammento eracliteo in cui si afferma che «per chi ascolta non me, bensì l’espressione (lógos), sapienza è riconoscere che tutte le cose sono una sola».16 Così si potrebbe continuare a cogliere nel loro essere ripetutamente differenti il lato tangibile, materico della verità eraclitea del Lógos, tanto da far collimare, come nell’ordine del pensiero mitico e dell’esperienza rituale in parte è avvenuto, i caratteri del paesaggio costiero, i golfi, le insenature, le rocce a strapiombo, gli anfratti, i ripari, le sorgenti, le foci con gli stessi «confini dell’anima ‒ di cui Eraclito dice ‒ nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione (lógos) che le appartiene».17

 

 

3. Una geografia di confini

In questa topografia della profondità enigmatica dell’anima, in quest’ambito di interiorità al cui dominio non può sottrarsi alcuna parte del mondo, si situano le coste di Omero distribuite in uno scenario ricco di visioni che oscillano tra spazi estremi e luoghi consoni a una terra patria, agognata per fondare o ritrovarvi dimore. Come diversamente si potrebbero interpretare i paesaggi di fine imminente, di morte annunciata, le terre abitate da maghe, da mostri o da figure divine, ma anche gli ameni ambienti di vita, gli insperati approdi, i porti sicuri che fluiscono negli occhi di Odisseo, pellegrino nel ciclo della vita, sulla via del travagliato ritorno? Come non vedere in quell’estenuante navigare tra venti contrari, tratti percorsi alla deriva, avvistamenti felici di terre il prender forma dell’universo interiore dei sentimenti che annunciano nel loro coagularsi attorno alle polarità del tremendo e del fascinoso l’evento stesso del sacro?18

Se «all’entrata del porto di Gòrtina nel mare nebbioso», narra il libro III dell’Odissea, «a stento evitarono morte gli uomini ma fracassarono contro gli scogli le navi le ondate»,19 o giunti nel XII libro all’isola delle Sirene attonito lo sguardo constata che «pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti»,20 ben altre immagini di coste appaiono all’approdo nell’isola del Ciclope: «vi sono prati, del mare schiumoso lungo le rive umidi e morbidi e vigne durevoli potrebbero crescere»21 o ancora «c’è un porto comodo dove non c’è bisogno di fune o di gettar l’ancora o di legare le gomene ma basta approdare e restare a piacere, fino a che l’animo dei marinai non fa fretta o non spirino venti. In capo al porto scorre acqua limpida, una sorgente sotto le grotte: pioppi crescono intorno».22 Così all’urlo ruggente dei marosi, alle immani risacche, alle onde flagellanti, che s’abbattono su rive sabbiose e acuminate scogliere,23 ai siti paurosi come la spelonca della parete vertiginosa di Scilla aperta sull’Erebo24 si avvicendano grotte sul mare, promontori che si protendono come baluardi difensivi,25 sino a raggiungere il «folto della macchia fiorita»,26 dove Odisseo trova alla fine rifugio dopo essere fortunosamente approdato a Itaca, l’isola amata, dal «porto, sacro a Forchis, il Vecchio del mare», e dalla baia protetta, alla cui estremità campeggia «un olivo frondoso» nei pressi dell’«antro amabile, oscuro, sacro alle ninfe, che si chiamano Naiadi», chiuso da due porte «una, da Borea, accessibile agli uomini; l’altra, dal Noto, è dei Numi e per quella non passano uomini, degli immortali è la via».27

Non c’è dunque costa nell’Odissea che non risuoni dell’insondabile eco di quell’abisso di cui si canta nel V libro: «Per diciassette giorni navigò traversando l’abisso, al diciottesimo apparvero i monti ombrosi della terra feacia: era già vicinissima, sembrava uno scudo, là nel mare nebbioso».28 Un abisso che nel rendere talvolta «la terra insperata»29 ne custodisce tutte le sensazioni e i sentimenti sì che sulle coste vita e morte, inizio e fine non fanno che rincorrersi, fronteggiarsi, talvolta unirsi, passando l’una nell’altra, come d’altro canto appartiene alla natura delle coste essere via di transito, spazio di confine, coincidenza degli opposti.

 

 lo stretto di Messina da Punta Faro (ME)

 

4. Le porte degli inizi

Nello sguardo degli uomini la fine della terra non è che l’inizio del mare e così la fine del mare coincide con l’inizio della terra: un gioco di prospettive che legittima la domanda, che forse più di altre ha guidato nel corso del tempo l’immaginazione poetica e diversamente l’immaginazione filosofica, se non si vuole considerare del tutto casuale il sorgere della filosofia dalle città costiere delle antiche colonie ioniche. Quale verità si annida sui confini delle coste, esse stesse porte come quelle menzionate da Omero nella grotta di Itaca, dove visibile e invisibile si toccano? Che cosa da quella linea di confine appare più vero, la fine o l’inizio?

Forse, stando alla stessa esperienza di Odisseo, sopravvissuto e fuggitivo, che sulle coste ha raggiunto il mare in fuga dalla terra e ha incontrato la terra cercando riparo dalla violenza del mare, si direbbe un risorgente inizio o un miracoloso inizio, se altrimenti ci si affida alle testimonianze, che in gran numero provengono dalle coste delle isole greche, consumati luoghi di tragedie e di miracoli avvenuti durante navigazioni interrotte contro le scogliere, come ricordano lungo le coste delle Cicladi le cappelle votive, che biancheggiano al sole, o tra le più antiche la solitaria cappella edificata sulla spiaggia di Aghia Roumeli nella Creta meridionale dedicata a san Paolo e al suo naufragio.

Alla dimensione misterica dell’inizio, che sopravanza sulla fine con lo stesso ritmo incessante delle onde, con cui il mare spumeggiando rincalza le proprie acque allorché esse sembrano volersi ritrarre dalla terraferma, allude la sacralità delle coste, che in tortuosi meandri disegnano nei mari cantati da Omero ‒ tra isole Ionie, Peloponneso, Attica, Calcidica, isole dell’Egeo settentrionale e orientale, Cicladi, Creta, Dodecaneso, l’antica Ionia ‒ le rotte di un viaggio ermeneutico. Costeggiando per altri frammenti sulla scia di un itinerario già in parte percorso da Martin Heidegger sulla scorta della poesia di Hörderlin alla ricerca del centro dello spirito greco,30 la riflessione sui rapporti tra uomini e coste si arricchisce di ulteriori elementi. Alla metafora del corpo che fa delle coste linguaggio del mondo e alle parole dell’epica che delle coste mostrano l’articolazione misterica s’affiancano le memorie dei luoghi che della lingua delle coste mostrano altre dimensioni.

Sulle coste meridionali dell’isola di Lefkás, Léucade, presso Capo Doukáto, sorgeva un celebre santuario dedicato ad Apollo, noto nella cosmografia concepita tra X e IX sec. a.C. come una delle porte di ingresso all’Ade.31 L’ubicazione del santuario, di cui ora rimangono pochi resti, bene esprime il valore simbolico dell’estrema punta delle rocce Leucadie o Bianche, rese poeticamente imperiture dal racconto del suicidio di Saffo: rilevante è l’assimilazione della morfologia costiera alla figura di Apollo, inseparabile custode di un arco e di una lira, strumenti che designano la doppiezza del dio, l’enigmaticità dei suoi poteri di vita e di morte, come ha osservato Giorgio Colli nella revisione dell’interpretazione nietzschiana del dio delfico condotta in La nascita della filosofia.32 La coniunctio oppositorum, per la tradizione apofatica espressione massima della Verità, ha qui conosciuto forse una delle sue trascrizioni rituali più rigorose: dalla rupe a picco sul mare nella festa del dio venivano gettati i condannati a morte ma nel contempo i sacerdoti del santuario si iniziavano ai misteri di Apollo affrontando nel rituale del catapontismo l’esperienza della vertigine e del volo.33

In bilico tra il regno dei morti e il dominio delle potenze divine le coste leucadie rivelano uno dei tratti che più durevolemente si imprimerà nella storia antropologica delle coste: nel dramma di un luogo esposto alle grandi tensioni della vita spirituale si inscrive il dramma dell’uomo che delle coste ha fatto da tempo immemore luoghi privilegiati di sacrificio, sacrifici di espiazione e autosacrifici iniziatici protesi al raggiungimento di stati ascetici o alla restaurazione di condizioni originarie. Se nel linguaggio del mito occorre sempre ravvisare il riverbero della trasfigurazione di effettive pratiche rituali, come non rinvenire la memoria di una geografia rituale delle coste in alcuni grandi racconti ambientati su coste sabbiose: si ricordi «la sabbia costiera di Aulide marina»34 sullo stretto dell’Euripo tra l’Eubea e la Beozia tragico scenario del racconto del sacrificio di Ifigenia, condannata dalle rivelazioni dell’indovino Calcante ad espiare il sacrilegio compiuto dal padre Agamennone a danno di una cerva sacra ad Artemide, signora per antonomasia dei luoghi liminali, evocata negli Inni di Callimaco con l’appellativo di «Custode delle strade e delle coste»,35 o ancora la costa nella terra dei Tauri dove la stessa Ifigenia venne misteriosamente condotta da Artemide per divenire sua vergine sacerdotessa, dopo essere stata rapita in una nuvola dalla dea36 e sostituita sull’altare sacrificale dalla comparsa repentina di una cerva, secondo una modalità che richiama il racconto del sacrificio di Isacco.37

 

 

5. Il recinto del sacro

Del nesso strutturale tra coste e rito attestano numerosi altri racconti, raggruppabili nella categoria delle «saghe del raggiungimento della riva» (Anschwemmungssagen), menzionati da Richard Buxton nello studio dedicato ai contesti della mitologia greca: in essi ricorre il tema del ritrovamento di un oggetto sacro, come ad es. «la testa galleggiante di Orfeo, che valorosamente canta ancora, benché il corpo del proprietario sia stato smembrato dalle Menadi tracie,» e «alla fine approda a Lesbo», o l’immagine di legno d’olivo che rappresentava Dioniso Phalleno giunta sulla stessa isola non diversamente dall’Ermes ritrovato sulle coste della Tracia.38 A monte di questi racconti, ricorda Buxton, vi è un’ampia tradizione cultuale che in diversi stati della Grecia prevedeva la celebrazione annuale sulla riva del mare di immersioni di statue in bagni lustrali. «Nel caso delle Plinterie ateniesi ‒ continua l’autore ‒ il rituale aveva luogo, particolare significato, nell’ultimo mese del calendario, creando una divisione tra l’ordine vecchio e l’ordine nuovo», in una sorta di temporalizzazione della dimensione spaziale dell’unità degli opposti, che sulle coste gioca sempre a favore dell’inizio, della rinascita come ricordano i miti del salvataggio di Danae e del suo piccolo Perseo, che tratto in salvo da Ditti, l’Uomo Rete, proprio sulla riva «rinacque metaforicamente per andare incontro a nuova vita di onore riconquistato».39

Analoghe tradizioni si sono mantenute ben oltre l’antichità per lunghi secoli anche in età cristiana se fa fede, ad es., la leggenda di fondazione del convento di Panaghia Chozoviótissa nell’isola di Amorgós, coevo al monastero di Patmos, costruito in una cavità della roccia a strapiombo sul mare su commissione dell’imperatore Alessio Comneno, secondo alcune fonti, nel XI sec. d.C., per altre fatto ricostruire dallo stesso imperatore a partire da un precedente edificio del IX sec. fondato da monaci provenienti dalla Palestina. A questo più antico nucleo si collega il ritrovamento di un’icona della Vergine rinvenuta sulla costa in prossimità della rupe sulla cui erta parete è stato eretto il convento. L’icona recante uno spillo di ferro posto in direzione del luogo, in cui il convento avrebbe dovuto sorgere, era stata gettata in mare, secondo la leggenda, al tempo delle lotte iconoclastiche da un donna, pare, di un villaggio sconosciuto della Palestina, Chozovo o Choziva, insieme a due altre sacre immagini, una delle quali fu trascinata dalle correnti più a nord sino alle coste dell’Athos, nella Calcidica, divenuto di seguito terra sacra al culto della Madre di Dio e centro di irradiazione spirituale per tutta l’ortodossia.40

Il miracoloso ritrovamento del volto dipinto della Panaghia rinforza la visione aurorale delle coste, che idealmente cingono in un sacro recinto uno spazio primordiale, segnato da una purezza impenetrabile all’esperienza umana se non in particolari condizioni iniziatiche o per gratuita effusione delle stesse energie in esso contenute. Le coste assumono così la forma di limen sacro, di soglia rituale, in cui il puro e l’impuro si correlano in una dialettica di cura e di guarigione, come ad es. avviene tuttora con il rito battesimale celebrato nel villaggio di Finikas nell’isola di Síros con l’immersione in acqua degli adolescenti calati dalle barche attraccate a riva. Ugualmente possono esse stesse incorporare la dimensione solenne e austera di un sacro tèmenos, come nella propaggine orientale dell’Attica è accaduto con la consacrazione di Capo Soúnio ad Atena e Poseidone41 o come diversamente le coste disegnano al centro dell’Egeo sulla ventosa e scabra isola di Dèlos, nel cui toponimo riecheggia il movimento rivelativo di un originario manifestarsi, di un inizio eternamente offerto.

Sulle basse coste rocciose di Dèlos, squassate da onde, che rendono talvolta incerta e difficoltosa la navigazione dei piccoli traghetti che la collegano a Míkonos, la trama nascosta nel corpo del mondo si rende totalmente manifesta: la natura appare lì ritrarsi da quell’enigmatica ritrosia di cui si è fatto mirabilmente interprete Eraclito quando di essa ha detto «la natura ama nascondersi».42 Così le coste di Dèlos apparivano agli occhi di Heidegger fin dal loro lontano profilarsi: luogo metafisico, spazio incontaminato della Verità. Ciò che per Heidegger non poteva che essere il risultato di una «meditazione a lungo coltivata sull’Alétheia, sul rapporto tra la svelatezza e la velatezza», si legge in Soggiorni. Viaggio in Grecia, trova «nel soggiorno a Dèlos la conferma di ciò che aveva bisogno. Quello che sembrava essere semplicemente frutto di una rappresentazione si era invece realizzato e si era colmato della presenza, vale a dire di ciò che un tempo si era rischiarato per concedere ai greci l’esser-presente».43

Più che in ogni altro luogo a «Dèlos, la Manifesta, colei che, non celata, disvela ma che, allo stesso tempo, nasconde e protegge»44 ‒ l’isola-scoglio che da Adelos, invisibile, divenne Dèlos, visibile, per accogliere il parto di Latona in fuga dalla gelosia di Hera, il venire alla luce dell’espressione duale della sacralità greca più autentica, Apollo e Artemide45 ‒ la Verità si dà nel suo essere «ambito: l’aperto che si offre, che tutto comprende, delimita e libera, che concede a tutto ciò che entra nella presenza e nell’assenza l’avvento, il trattenersi, la partenza e la mancanza».46

Tra le coste, che la stringono in uno stretto lembo di terra, l’isola con prime testimonianze archeologiche risalenti al terzo millennio e un esteso abitato di età micenea, divenuta con la colonizzazione ionica centro di annuali celebrazioni religiose, onphalos dell’Egeo, sottoposta durante la lunga egemonia ateniese a due grandi purificazioni, tra il 540 e il 528 a.C. e nel 426 a.C., che alla fine sancirono il divieto assoluto di nascervi e di morire e l’espulsione definitiva dei suoi abitanti,47 trattiene imperitura l’impronta dell’orizzonte, in cui, scrive Heidegger, originariamente trova accoglienza la physis: il «puro dischiudersi, in se stesso celato, dei monti e delle isole, del cielo e del mare, delle piante e degli animali», quel gratuito dischiudersi della physis, in cui «ogni cosa appare nella sua figura, riceve la sua impronta profonda e insieme delicatamente fluttuante» e dalla cui esperienza i mortali hanno tratto «una primitiva intuizione secondo la quale il pensare si sarebbe trasformato nel rammemorare e in quanto tale nell’esser grati».48

 

 

6. L’oracolo delle coste

Nella luce della piccola isola di Dèlos «invisibile centro del cerchio di isole»,49 la forma delle coste assurge con maggiore evidenza a simbolo di un mondo unitario e molteplice, diversamente identico, di continuo risorgente, riverbero di quel segreto concatenarsi del Lógos che è insondabile interiorità, incontenibile effusione di grazia, anima irradiantesi in epifanie del sacro. Così non c’è fenomeno dell’ambiente costiero che non partecipi all’albeggiare del mondo e al suo farsi dimora per la storia dell’uomo. Non solo lingue di sabbia o tormentati conglomerati rocciosi ma anche eventi atmosferici, il moto ondoso e le maree concorrono a comporre sulla diveniente distesa dell’anima in figure e narrazioni archetipiche i giochi e le forme del destino.

Sulle coste non ci si può affatto sottrarre all’ascolto del vento che soffia impetuoso anche nello stesso diario di Heidegger. Sarebbe davvero impensabile scinderne i suoni dall’esperienza rivelativa dell’Alétheia, che profondendosi nel linguaggio ha dato nel contempo origine al «Mythos, il dire, che si dispiega nel pensiero greco» e al « Lógos che si dispiega nel léghein e nel dialégheszai, nell’enunciare e nel discutere di ciò che è presente».50

Ecco allora avanzare nell’incessante movimento dei venti, nelle brezze costiere, che la differente inerzia termica del mare e della terra genera,51 l’eco di un originario fluire di suoni e di voci, che si trattengono nell’ambito misterico antecedente ad ogni possibile discorso. La grande tradizione oracolare della religione greca troverà nel paesaggio acustico delle coste uno dei suoi luoghi privilegiati. Se alla radice di mythos ineludibile è la memoria dello stadio primordiale del linguaggio, espressa da quel my-, suono informe, balbettio in cerca d’articolazione, che infinite volte gli oracoli disseminati in terra greca hanno reinventato e esplorato in ogni implicazione, non può sfuggire la straordinaria circolarità di mito e profezia che nel vento aleggia sulle coste.52 In riva al mare si rincorrono echi e visioni che irretiscono e ammaliano.

Frammenti di altri racconti si dispongono lungo la rotta tracciata nella memoria dei luoghi dall’itinerario sin qui seguito. Sulla scorta del racconto di Omero,53 Virgilio ricorda lungo le coste dell’isola di Kárpathos le profezie di Proteo, l’enigmatico e veritiero vecchio del mare, che affiorava a mezzogiorno per distendersi al sole circondato da un mugghiante gregge di foche e da un vociante stuolo di pellegrini in cerca di futuro.54 Sulle coste dell’isola di Ios la morte sopraggiunge per il sapiente Omero sconfitto da un enigma portato a riva da un gruppo di giovani pescatori: ancora Aristotele ricordava l’episodio che aveva visto Omero interrogare l’oracolo «per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria. Alla domanda il dio aveva risposto: l’isola di Io è patria di tua madre ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall’enigma di giovani uomini».55 Nel pensiero dello Stagirita riaffiorava un’antica leggenda, presente anche alla mente di Eraclito, nella quale la morte di un Omero deprivato dell’arte di sciogliere enigmi adombra la dimensione tragica della sfida che la sapienza affronta nel misurarsi con i propri limiti.56

Del suono delle coste, dei sibili, degli ululati e dei silenzi dicono le figure delle Sirene, donne con corpo d’uccello, solitamente in coppia e talvolta in triade, di cui il racconto omerico, già ricordato, costituisce la più antica fonte letteraria.57 La loro voce acuta e stridente si faceva spazio in un’improvvisa calma di vento:58 da lontano un prolungato ininterrotto grido, in prossimità della costa un canto incombente, foriero di parole fatali evocative di passaggi senza possibilità di ritorno. L’insistenza iconografica delle loro figure nel quadro dell’arte funeraria chiarisce il valore simbolico della loro presenza sulle coste e soprattutto l’affinità delle loro voci con i canti funebri che alcune fonti letterarie richiamano.59

Se Omero opponeva alla malia del loro canto di morte la cera posta nelle orecchie dei rematori e i nodi, che legavano strettamente all’albero della nave Odisseo, Apollonio Rodio nel racconto degli Argonauti ne faceva contrastare la voce strepitante, il suono indistinto, dalla musica di uno strumento apollineo, la phorminx, suonata da Orfeo. Dunque un suono primordiale, non dissimile da quello emesso dagli strumenti a fiato suonati dai Satiri, emettevano le Sirene, figlie di Forchis o di Acheloo e Sterope o per le loro virtù musicali figlie di Tersicore, Melpomene o Calliope o ancora per altre tradizioni figlie di Gea, rappresentate talvolta nella pittura vascolare nell’atto di suonare l’aulos, uno strumento, come la syrinx di Pan, seducente per la sua somiglianza con la spontaneità di suoni disarticolati, irrazionali, selvaggi,60 echi di abissi e di inferi ove alla memoria dell’origine s’affianca la dimora dei morti. Nell’aura simbolica del canto delle Sirene la brezza costiera annuncia ai mortali l’approdo finale.

Una storia di vento e di morte per colpa è inscritta nelle coste, che nell’Egeo orientale compongono il perimetro a forma di ala dell’isola di Ikaría, che Strabone chiamava Alímenos, l’isola senza porti,61 e alla cui furia delle onde e impetuosità dei venti Omero aveva paragonato la rivolta scoppiata nell’accampamento degli Achei.62 Qui, secondo la tradizione mitologica, ebbe sepoltura Icaro, il figlio di Dedalo, geniale artefice del Labirinto, il palazzo di Cnosso, in cui Minosse, re di Creta, lo volle rinchiudere per vendetta con il figlio e dal quale con lo stesso fuggì, prendendo il volo dopo essersi costruiti ali di piume legate con fili e impastate di cera, che al calore del sole fecero precipitare in mare l’imprudente Icaro. Sempre qui trovò l’ultima sua dimora lo sfortunato Icaro, secondo un’altra tradizione accordata da Pausania e presumibilmente sostenuta dal toponimo dell’antico porto di Ikaría, Histói, espressione greca per vela, che adombrava nelle ali disciolte al sole le vele gonfie della nave costruitagli dal padre e finita contro le coste per naufragio.63

 

 

7. Le rotte del Labirinto

Per secoli tra Ikaría e Creta le coste sono state lambite dalle correnti dei grandi racconti che si sono annodati nell’imponente ciclo narrativo del Labirinto, epicentro di un complesso sistema di culti e di rituali, che rivelano un’attinenza non casuale con gli ambienti costieri e i loro fenomeni fisici. Dall’impressionante stratificazione di memorie sedimentate nel sacro recinto di Dèlos non potevano emergere testimonianze più cogenti: in prossimità della costa, là dove l’oracolo si manifestava nell’immensa palma che Odisseo vedeva salire al cielo affascinante allo sguardo,64 sacra come la quercia di Zeus, «quercia alta chioma del dio», dalle fronde vocianti al passare del vento nella valle di Dodona,65 sorgevano tra i templi dedicati ai fratelli divini due costruzioni di grande rilevanza ermeneutica, situate nel punto focale del culto di Apollo occupato un tempo dal Keratòn, l’Altare delle Corna costruito dal dio con le corna della capre cacciate sul Cinto dalla sorella Artemide.

La prima, il così detto “Monumento absidato”, privo di strutture interne, identificabile come una sorta di recinto, conteneva presumibilmente lo stesso Keratòn, attorno al quale si doveva svolgere la parte culminante della celebrazione della Gèranos, la gru, la danza documentata da testimonianze epigrafiche databili alla II Lega delio-attica, che si voleva far risalire all’eroe del Labirinto approdato all’isola sulla via del ritorno ad Atene dopo l’uccisione del Minotauro in segno di ringraziamento per il dio. L’altra, un’imponente struttura a pianta rettangolare, conosciuta come “Edificio 42”, in grado di accogliere un numero elevato di individui, accredita l’ipotesi che si trattasse del vero e proprio Labirinto, il luogo ove i celebranti del rito si ritrovavano per dare inizio alla danza, le cui movenze ricordavano la spazialità meandriforme del palazzo-prigione di Cnosso e le sequenze tortuose delle azioni compiute per raggiungerne il centro, sacrificarvi il mostruoso signore e trovare, grazie al gomitolo donato da Arianna, la via della certa salvezza.66

La danza, che credibilmente si svolgeva tra i due edifici, doveva trasporre nei passi di un rito di passaggio le sequenze narrative del racconto di fondazione dell’isola, emersa dalle profondità marine per ricevere e custodire il dono della vita nella sua espressione più sacra. Attraverso la messa in scena della storia di Teseo gli officianti del culto di Apollo divenivano, ad un tempo, adepti di Arianna, la figlia di Minosse e della trasgressiva Pasifae, madre del Minotauro, conosciuta nelle fonti minoiche con i nomi di Ariadne, Aridela, «luminosa», Ariagne, «pura», ma anche con quello di Aphaea «invisibile», di cui i miti greci narravano il tragico destino di dea congiuntasi per amore all’umano e per tale colpa da esso per sempre allontanata.67

Sulla linea narrativa di questa danza la rilettura del senso sotteso al rapporto uomo-costa si porta in prossimità delle coste dell’isola di Nàxos, da cui Teseo, secondo il mito, proveniva e ai cui abitanti si deve proprio in Dèlos la costruzione del primo tempio monumentale di Apollo, detto l’Oikos dei Nassi, l’erezione del Colosso, una gigantesca statua del dio nudo con arco e faretra, e la sistemazione dell’orientaleggiante Terrazza dei Leoni prospiciente il tèmenos di Latona, il lago sacro ai piedi della palma, dove essa, si dice, partorì Apollo e Artemide.

Se l’immagine dell’isola si è nel tempo identificata con la così detta Portàra, l’alto isolato portale d’accesso alla cella del tempio dedicato, si pensa, ad Apollo Delio, eretto dal VI sec. a.C. sul lembo di costa che in Nàxos si allunga nella piccola penisola di Palàti poco distante dal luogo dove fu fondato nella prima età del Bronzo il nucleo originario della città antica,68 ancor più di Apollo e del suo culto era radicata in Nàxos la memoria di Arianna e del suo destino di amore e di morte.

Una delle tante tradizioni, che identificano Nàxos con la mitica Dia, vuole che lungo un tratto di costa sia avvenuta la palingenesi della figlia di Minosse, presumibilmente tra le ampie spiagge a sud del capoluogo, in prossimità del promontorio di Stelida, a breve distanza da Irìa, una località un tempo paludosa per la sua vicinanza al mare, sede di un antichissimo luogo di culto all’aperto divenuto in seguito alla costruzione di un primo tempio (VII sec. a.C.) santuario di Dioniso.69 Da qui avrebbero preso forma le storie della nascita del dio e dei suoi amori con Arianna, che giunta sull’isola al seguito di Teseo ne conobbe il tradimento e l’abbandono per poi essere irretita dal dio, che lei stessa, secondo alcune versioni, sua sposa, aveva abbandonato in Creta per seguire l’eroico ateniese: qui negli stessi luoghi della passione fu infine uccisa per mano di Demetra, che così aveva inteso dover dar corso alla vendetta dello sposo, che dopo la morte dell’amata la innalzò nel cielo notturno eternamente luminosa con il suo diadema nuziale.

Quale nesso si raccoglie nel racconto nasseno tra contesti costieri, storie divine e ascensioni celesti? Senza dubbio una tradizione di culti, che uniscono l’Arianna del mondo minoico-cretese a più antiche divinità femminili in parte documentabili in alcune località della Grecia continentale sin dall’età neolitica e in parte riconducibili al mondo spirituale della cultura cicladica, di cui Nàxos fu centro fiorente.70 Dunque un’Arianna che custodisce accanto al gomitolo-memoria del palazzo di Dedalo la memoria di una dea, il cui principale epiteto, Potnia, la Signora, nota anche con l’appellativo di Wanassa, la Regina, esprimeva l’essenza di un’energia misterica, impersonale, una forza di rigenerazione, automanifestantesi in una pluralità di apparizioni locali, che in spazi liminali come le vette dei monti, certi campi segnati da alberi isolati, soprattutto le caverne anche in prossimità del mare avevano i loro contesti privilegiati.71 Di nuovo la trama nascosta riappare al fondo di un mondo concepito nel grembo di un corpo femminile, la trama che trattiene ai primordi del pensiero greco le coste nell’ordine del divino.

E a tal proposito di particolare interesse possono risultare talune osservazioni avanzate da Robert Graves che pensò di dover ricondurre alla figura di Arianna tradizioni rituali diffuse in età storica nell’Attica, quali l’uso dell’altalena da parte di fanciulle durante la festa della vendemmia e il ricorso magico a maschere di un Dioniso dal volto femminile appese agli alberi per propiziarne la fecondità. Entrambi gli usi presentavano assonanze con il mondo cretese, per il quale è nota l’importanza cultuale di bambole snodabili ritrovate in siti minoici dedicati alla Potnia; altrettanto conosciuto è un sigillo rinvenuto ad Aghia Triada con l’immagine di una fanciulla in altalena, la stessa dea?, tra due pilastri sui quali si appoggia un uccello.72

Quale simbolo avrebbe potuto con più efficacia mostrare il dominio di Arianna sul mare, sulla terra, sul cielo, su tutti i processi di cambiamento e di trasformazione se non quello di un gioco che libera energie e apre a dimensioni altrimenti sconosciute? Forse solo il moto vorticoso di un’altalena, che si solleva sovvertendo le relazioni spaziali e trasformando il senso di vertigine in percezione di volo, avrebbe potuto mostrare la profondità dell’esperienza visionaria che si raccoglie sulle coste nel ritmo incessante delle maree, che nel loro andirivieni inducono gli uomini all’estasi, all’estraniante vissuto di un sentirsi posseduti da una realtà totalizzante e trascendente.

Ma così avvenne sul piano della storia esemplare degli dei per la stessa Arianna che sulle coste di Nàxos fu travolta dall’appassionata energia di vita di Dioniso, che errabondo sul finire di estenuanti peregrinazioni tra Occidente e Oriente era giunto sull’isola proveniente da Ikaría al termine di una navigazione prodigiosa, durante la quale aveva trasformato in serpenti l’albero e i remi della nave dei pirati che lo volevano vendere come schiavo, ne aveva avvolto lo scafo con l’edera e mentre una magica musica di flauti si diffondeva tutt’attorno aveva mutato i suoi marinai in delfini.73 Le antiche monete coniate a Nàxos riportavano i simboli dionisiaci: cantaro, cratere, tirso e vite74 si erano ormai diffusi all’indomani delle nozze divine, che nello scenario delle coste nassene avevano riversato sul tempo a venire ciò che era stata l’eredità misterica del passato in un inestricabile connubio di fermentazione e metamorfosi, di misura, ritmo, effervescenza e tumultuosità.

 

 

8. L’incanto della bellezza

Non solo riti, sacrifici, oracoli, profezie trovano dimora sulle linee costiere del sacro additandone l’insondabile profondità. Non solo l’enigmaticità contrassegna i luoghi ove il movimento rivelativo dell’anima si solidifica nei paesaggi della differenza ma anche incontenibili manifestazioni di gioia, travolgenti azioni di gioco, geniali creazioni di festa. Lo ricorda in forma mirabile, tra le fonti delle origini, ancora l’epica omerica. Si pensi nell’Iliade alla descrizione dello scudo di Achille forgiato da Efesto nel XVIII libro, la bella immagine di danza in riva al mare «che in Cnosso vasta un tempo Dedalo fece ad Arianna riccioli belli». Nulla della tragica cupezza del palazzo di Minosse ma l’atmosfera di una festa inaugurata dal roteare di due giocolieri aleggia tra «molta folla attorno alla danza graziosa, rapita». «Giovani e giovanette ‒ ricorda Omero ‒ danzavano tenendosi per mano … talvolta correvano con i piedi sapienti, agevolmente, come la ruota ben fatta tra mano prova il vasaio, sedendo, per vedere se corre; altre volte correvano in file, gli uni verso gli altri». In un intreccio di linee e di cerchi non diverso da quello tracciato dall’acqua, che si allunga in frangenti e si riversa in giochi di gorghi, la danza del Labirinto cretese, figura allegorica di coste reali, emblematicamente chiudeva l’estrema lingua di mondo prima che Efesto incidesse «la gran possanza del fiume Oceano lungo l’ultimo giro del solido scudo».75 Così nel libro XXIII il racconto dei funerali solenni di Patroclo vede il litorale diventare campo d’agoni: all’indomani della lunga notte consumatasi nel grande rogo, dove era stato deposto il defunto con uomini, animali e oggetti, si susseguono lungo la costa sabbiosa corse di cocchi, combattimenti di pugilato, corsa, duello, lancio del peso e gara con l’arco.

Con la diffusione del culto di Dioniso si amplifica la dimensione ludico-festiva delle coste, che si apprestano ad accogliere nella configurazione naturale di certe baie l’evento per eccellenza dionisiaco del teatro. Così sarebbe doveroso aggiungere una postilla alle suggestive annotazioni di Nietzsche, che nella Nascita della Tragedia scriveva: «la forma del teatro greco ricorda una valle di montagna solitaria: l’architettura della scena appare come una splendida immagine di nuvole, che le baccanti sciamanti per le montagne, scorgono dall’alto come la magnifica cornice, nel cui centro si rivela a loro l’immagine di Dioniso».76 Non solo valli solitarie percorse da adepte inebriate ma a Dèlos, a Thasos, a Mitilene, a Lindos nell’isola di Rodi, sulle coste di Creta, di Cipro, della Magna Grecia lo sguardo degli spettatori si è raccolto e proteso nella circolarità di spazi aperti su cieli al tramonto, notti stellate, riflessi lunari in acque ondeggianti.77

Nella spazialità geometrica del cerchio dell’orchestra riservato alle azioni del coro78 la circolarità adombrata nella morfologia costiera trova architettonicamente il suo centro e con esso la compattezza dell’originaria articolazione dell’unità-diversità del mondo si fa tangibilmente esperienza percettiva: «nel cerchio», ha osservato Eraclito, «ciò che si concatena è principio e fine».79 Da quel cerchio posto al centro dell’abbraccio di coste e teatro, si potrebbe asserire ancora con lo stesso Eraclito, si irradia nella sua assolutezza il mondo: «il mondo di fronte a noi ‒ il medesimo per tutti i mondi» che «non fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misura e si spegne secondo misura».80 Ed è noto che alle «inversioni del fuoco» il filosofo riconducesse le grandi metamorfosi della natura colte in quei passaggi che sembrano evocare paesaggi di coste: «dapprima il mare, poi una metà del mare diventa terra, l’altra metà soffio infuocato».81

Sul filo del pensiero eracliteo potremmo continuare a disporre altri frammenti di coste esemplarmente scelti tra i molteplici che si addensano lungo gli approdi di un viaggio ermeneutico tra terre reali e immaginarie: continue testimonianze di tutti i mondi che hanno tratto scaturigine per mano degli uomini dall’unico mondo sempre uguale a se stesso e sempre risorgente, che ne ha ispirato e sostanziato la concezione in una diversità di modi e di lingue che ben sembrano accordarsi alla natura del dio che «disperde e di nuovo raccoglie e si avvicina e si allontana»,82 o che diversamente «è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame e si altera nel modo in cui il fuoco ‒ ogni volta che divampi mescolato a spezie ‒ riceve nomi secondo il piacere di ciascuno».83

Così appaiono le belle coste trasformate in dimore edeniche con scene di caccia e flottiglie di imbarcazioni in porto dipinte sugli affreschi ritrovati nell’antica Théra, la città sepolta dall’eruzione vulcanica del XVI sec. a.C. sull’isola di Santorini, cui si è voluto collegare per un certo tempo il mito platonico di Atlantide,84 le austere coste che in età cicladica hanno accolto imponenti insediamenti cimiteriali o nella prima età cristiana hanno custodito, come a Mílos, la segretezza delle catacombe, o ancora le coste, baluardi naturali, divenute in epoche di conflitti e di imperialismi fortificazioni in apparenza inespugnabili ‒ si pensino a Kámiros e in altre località dell’isola di Rodi le fortezze edificate dagli ordini cavallereschi o nel Peloponneso ad est le coste fortificate per secoli da Bizantini, Franchi e Veneziani a Monemvassía e a sud la costa che si innalza nei bastioni di una cittadella veneziana a Náuplia ‒ o le coste punteggiate da torri di avvistamento o da costruzioni destinate a far brillare in lontananza grandi fuochi notturni, segnacoli per secoli di pericoli e nodi di una fitta rete di comunicazioni.

Nel loro dipanarsi le coste sono state e sono gangli vitali di storia e di cultura: lo ha mostrato in tempi recenti con rigore filologico Predrag Matvejević spigolando tra antiche carte, tessiture di città costiere, immagini di moli, forme di porti, fari, caratteristiche degli entroterra, rotte, odori di vegetazione, alberi dominanti, figure di culto.85 Così per Pablo Neruda non vi sono coste al mondo che non si allunghino e non si dilatino nei territori poetici di discorsi tesi tra autobiografia e celebrazione dell’anima dei paesaggi:86 è destino delle coste mantenersi sulla soglia di un oltre, che attrae l’immaginazione negli intrecci di un’affabulazione continua e dirompente, tuttora resistente al processo dall’esito inquietante di radicale secolarizzazione del mondo.

Chi potrebbe resistere all’atrofizzazione in atto dell’immaginazione, si è chiesto Marc Augé al termine di un saggio dedicato alla finzionalizzazione del mondo contemporaneo?87 Forse paradossalmente si potrebbe rispondere rivolgendo lo sguardo alle coste che, al di là dello scempio che talvolta esse registrano, mantengono viva nella radice della bellezza, che è armonia del diverso, la traccia della trama nascosta del sacro, l’orizzonte intramontabile del «medesimo unico mondo», custode del fuoco cui attinge l’energia della vita. Come attorno al fuoco ha preso a vivere l’immane storia dell’architettura88 e sulle coste si è stratificata gran parte della storia occidentale, sulle coste gli uomini dovrebbero ritrovarsi per riprendere a costruire come i bambini della poesia di Rabindranath Tagore raccolta in Gitanjali, che «s’incontrano con grida e danze sulla spiaggia di mondi sconfinati».89 D’altro canto ancora Eraclito ricordava che le idee degli uomini sono «giocattoli di fanciulli»:90 nel gioco serio della pianificazione e della progettazione le coste si presentano tuttora con l’anima di territori dinamici, di luoghi carichi di significati da interpretare e da tradurre in azioni e eventi capaci di restituire alla vita degli uomini l’incanto dell’abitare il mondo.

 


 

 

 

Note

 

1. James Hillman, Carlo Truppi, L’anima dei luoghi, Rizzoli 2004, pagg. 95-6. L’Occidente, scrive Hillman, è attanagliato da uno smarrimento della psiche dovuto a un eccesso di distruzione, costruzione, spostamenti, a una continua perdita di ricordi e di immagini. Tuttavia è proprio dalle ferite inferte dalla storia contemporanea che si potrebbe avviare una radicale re-visione epistemologica dei metodi di studio e di pianificazione degli spazi di vita. «Una ferita apre verso dentro e verso fuori». Crea, a sua volta, un luogo ove l’immaginazione dovrebbe tornare a insediarsi per ristabilire, fin dove ne è data la possibilità, la «legge» del luogo, «il cosa vuole il luogo non cosa vogliamo noi». Da qui la tematizzazione del rapporto luogo-memoria-ferita postula la necessità di dare spazio negli studi di impatto ambientale a ricerche preliminari più ampie e dettagliate sulle semiotiche e sulle semantiche dei luogli in linea con le ricerche pionieristiche della pratica dell’immaginazione poetica esercitata per lunghi anni dal Bachelard della psicanalisi degli elementi.

2. Per un inquadrameno generale delle problematiche e delle politiche ambientali e per una conoscenza delle convenzioni e dei trattati internazionali per la difesa del Mediterraneo si vedano: Tiziana Ancarola, Le coste del Mediterraneo. Studi ambientali, Napoli 2000 e Fabiana Callegari, Sistema costiero e complessità culturale, Bologna 2003.

3. Jean Piaget, Biologie et connaissance, Paris 1967, tr. it. di F. Bianchi Bandinelli, Biologia e conoscenza, Torino 1983. Le matematiche stesse, si legge nel capitolo introduttivo, «non si riducono affatto ad una descrizione del reale, pur adattandovisi esattamente; anzi lo oltrepassano in ogni senso (nelle diverse forme di infiniti, di spazi, di funzioni, ecc.) e consistono in una teoria di tutte le trasformazioni possibili e non soltanto reali. Ma dire ‘trasformazioni’ equivale a dire azioni o operazioni (queste derivano da quelle)… Anche la logica consiste in un sistema di operazioni (classificare, ordinare in serie, mettere in corrispondenza, usare una combinatoria o dei ‘gruppi di trasformazione’, ecc.) e l’origine di queste operazioni è da ricercare ben al di qua del linguaggio, nei coordinamenti generali dell’azione. La natura attiva della conoscenza si manifesta fin dalle sue forme più elementari. L’intelligenza senso-motoria consiste nel coordinare direttamente le azioni, senza passare attraverso la rappresentazione o il pensiero. La percezione ha senso solo in quanto legata alle azioni» (pagg. 8-9).

4. Si veda la voce «costa» in: Giacomo Devoto, Dizionario etimologico. Avviamento all’etimologia italiana, Firenze 1968; Carlo Battisti, Giovanni Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze 1975; Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino 1999.

5. Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II, Das mytthische Denken, Oxford 1923, tr. it. di E. Arnaud, Filosofia delle simboliche, II, Il pensiero mitico, Firenze 1964, pagg. 133-4.

6. ibid., pag. 131.

7. Gn. 2, 18-25. Kurt Flasch, Eva und Adam. Wandlungen eines Mythos, München 2004, tr. it. di T. Cavallo, Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito, Bologna 2007.

8. Gv. 19, 32.

9. Enzo Pranzini, La forma delle coste. Geomorfologia costiera impatto antropico e difesa dei litorali, Bologna 2004, pag. 1.

10. ibid., pag. 3.

11. ibid., pagg. 7-11.

12. ibid., pag. 3.

13. Giorgio Colli, La sapienza greca, III, Eraclito, Milano 1980, fr. 14 [A 20].

14. Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Milano 1984, vv. 240-64. Anche se per alcuni studiosi si possono contare nel testo di Esiodo cinquantun Nereidi, cinquanta sono per il poeta le ninfe marine del Mediterraneo venerate in particolare nelle città costiere e nei porti della Grecia. Per una tavola sinottica delle Nereidi in Esiodo, Omero, Apollodoro e Igino si veda: Anna Ferrari, Dizionario di Mitologia greca e latina, Torino 1999.

15. Marija Ginbutas, M. Robbins Dexter ed., The living Goddesses. Religion in Pre-Patriarchal Europe, Berkeley and Los Angeles 1999, tr. it. a cura di M. Doni, Le dee viventi, Milano 2005.

16. Giorgio Colli, La sapienza greca,op. cit., fr. 14 [A 3].

17. ibid. fr. 14 [A 55].

18. Rudolf Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, München 1936, tr. it. di E. Buonaiuti, Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Milano 1966.

19. Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino 1989, vv. 293-297.

20. ibid., vv. 44-46.

21. ibid., IX, vv. 133-134.

21. ibid., IX, vv. 136-141.

23. ibid., V, vv. 438-443.

24. ibid., XII, vv. 73-81.

25. ibid., X, vv. 1-4; vv. 87-94.

26. ibid., XIII, vv. 354-355.

27. ibid., XIII, vv. 96-112.

28. ibid., vv. 278-281.

29. ibid., V, v. 408.

30. Martin Heidegger, Aufenthalte, Frankfurt am Main 1989, tr. it. di A. Iadicicco, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Parma 1997.

31. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, Grecia, Milano 1997, pag. 337.

32. Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Milano 1975, pagg. 40-1.

33. Eléni Karapanaghióti-Valaoríti, Léucade (Lefkáda), in Évi Melá (a cura di), Isole greche, Milano 1991, pagg. 407-8.

34. Euripide, Ifigenia in Aulide, tr. it. a cura di F. Ferrari, Milano 1988, vv. 164-5.

35. Callimaco, Ad Artemide, v. 38, in Inni. Chioma di Berenice, a cura di V. Gigante Lanzara, Milano 1984.

36. Euripide, Ifigenia in Tauride, tr. it. a cura di F. Ferrari, Milano 1988, vv. 784-7: «Di’ che Artemide mi salvò mettendo una cerva al posto mio e trasportandomi in questa terra. Mio padre credette di immolarmi, di colpire il mio collo con la spada affilata, ma fu illusione».

37. Gn. 22, 13: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio».

38. Richard Buxton, Imaginary Greece. The context of mythology, Cambridge 1994, tr. it. di T. Menegus, La Grecia dell’immaginario. I contesti della mitologia, Firenze 1997, pagg. 115-6.

39. ibid., pag. 116.

40. Lila Marangoú, Amorgós, in Évi Melá (a cura di), op. cit., pag. 167.

41. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pagg. 285-7.

42. Giorgio Colli, La sapienza greca, op. cit., 1980, fr. 14 [A 92].

43. Martin Heidegger, op. cit., pagg. 39-40.

44. ibid. pag. 36.

45. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit, pag. 368.

46. Martin Heidegger, op. cit., pag. 38.

47. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pag. 369.

48. Martin Heidegger, op. cit., pagg. 40-1.

49. ibid., pag. 37.

50. ibid., pag. 38. Dell’intrinseco rapporto tra Verità e esperienza del linguaggio vi è traccia in Eraclito laddove si legge nel fr. 14 [A 10]: «All’anima tocca un’espressione (lógos) che accresce se stessa»

51. Enzo Pranzini, op. cit., pag. 15.

52. Giacomo Camuri, Mito, in Enciclopedia Filosofica, VIII, Milano 2006.

53. Omero, Odissea, vv. 365 ss.

54. Virgilio, Georgiche, a cura di B. Riposati, R. Calderini, Milano 1964, IV, vv. 387 ss.

55. Giorgio Colli, op. cit., pag. 61.

56. ibid., pagg. 63-4. Giorgio Colli, La sapienza greca, op. cit., fr. 14 [A 24]: «Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente a Omero, che fu più sapiente di tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei ragazzi che schiacciavano pidocchi, quando gli dissero: «Tutto quello che abbiamo visto e preso lo lasciamo; tutto quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo».

57. Loredana Mancini, Il rovinoso incanto. Storie di Sirene antiche, Bologna 2005, pagg. 18-9.

58. Omero, op. cit., XII, vv. 166-69.

59. Loredana Mancini, op. cit., pagg. 38-9. L’Autrice ricorda due opere, il Partenio 2 e Elena, rispettivamente di Pindaro e di Euripide.

60. ibid., pagg. 43-5.

61. Vánna Chatzimicháli-Svorónou, Ikaría (Nikaría, Icaria), in Évi Melá (a cura di), op.cit., pag. 285.

62. Omero, Iliade, tr. it. a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino 1990, II, vv. 144-9: «L’assemblea fu sconvolta, come onde grandi del mare, del mare Icario, che l’Euro o il Noto sollevano balzando giù del padre Zeus dalle nubi o come quando Zefiro giunge e l’alte messi sconvolge, violento avventandosi, e le spighe si piegano; così l’intera assemblea si sconvolse…».

63. Vánna Chatzimicháli-Svorónou, Ikaría (Nikaría, Icaria), in Évi Melá (a cura di), op.cit., pag. 287.

64. Omero, Odissea, VI, vv.162-3.

65. ibid., XIV, vv. 327-30; XIX, vv. 296-99.

66. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pagg. 375-6; Giorgio Colli, La nascita della filosofia, op. cit., pagg. 30-2.

67. Giorgio Colli, op. cit., pagg. 26-7; Bernard C. Dietrich, Religione, culto e sacro nella civiltà cretese-micenea, in Jiulien Ries (a cura di), Le civiltà del Mediterraneo e il Sacro, III, Trattato di Antropologia del Sacro, Milano 1992, pagg. 86-7; Giorgio Ieranò, Il mito di Arianna, Roma 2007.

68. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pag. 385.

69. ibid., pagg. 386.

70. Bernard C. Dietrich, op. cit., pagg. 71-2; AA.VV., Cycladic Culture. Naxos in the 3rd Millennium, Athens 1990.

71. Bernard C. Dietrich, op. cit., pag. 77.

72. Robert Graves, Greek Myths, London 1961, tr. it. di E. Morpurgo, I miti greci, Milano 1979, pag. 237 e pag. 316.

73. ibid., pagg. 93-4.

74. Fotiní Zafiropoúlou, Nasso (Náxos), in Évi Melá (a cura di), op.cit., pag. 136.

75. Omero, Iliade, vv. 590-607.

76. Friedrich Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, Leipzig 1872, tr. it. di S. Giametta, La nascita della Tragedia, Milano 200322, pag. 59.

77. Dimítris Bosnákis, Dimítris Gangís, Judith Lange, María Stephosi, ΑΡΧΑΙΑ ΘΕΑΤΡΑ, Aθηνα s.d.

78. La scomparsa del coro determinò in bassa età ellenistica la trasformazione del cerchio dell’orchestra in spazio semicircolare.

79. Giorgio Colli, La sapienza greca, op.cit., 14[A 12].

80. ibid., fr. 14 [A 30].

81. ibid., fr. 14 [A 31].

82. ibid., fr. 14 [A 45 b].

83. ibid., fr. 14 [A 91].

84. Pierre Vidal-Naquet, L’Atlantide. Petite histoire d’un mythe platonien, tr. it. di R. Di Donato, Atlantide. Breve storia di un mito, Torino 2006.

85. Predrag Matvejevic, Mediteranski Brevijar, Zagabria 1987, tr. it. di S. Ferrari, Mediterraneo. Un nuovo brevario, Milano 1991.

86. Pablo Neruda, Viaje por las costas del mundo, 1947, tr. it. a cura di I. Carmignani, Viaggio lungo le coste del mondo, Firenze 2005.

87. Marc Augé, La Guerre des rêves exercices d’ethno-fiction, Paris 1997, tr. it. di A. Soldati, La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, Milano 1998. Si veda in particolare il cap.VI, L’ordine del giorno.

88. Sul rapporto architettura, archai, fuoco si veda: James Hillman, Carlo Truppi, op. cit., pagg. 21-4. «L’architettura è chiamata a servire il risveglio della coscienza umana, custodendo il suo fuoco in modo specifico e durevole». Giacomo Camuri, Fuoco, in op. cit., V.

89. Rabindranath Tagore, Gitanjali, New York 1913, tr. it. di E. Marinelli, Gitanjali, Firenze 20056.

90. Giorgio Colli, La sapienza greca, op.cit., fr. 14 [A 42].