Scienze umano-sociali e scienze naturali

 

di Angelo Morales

 

“L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché è in sé e
 per sé per un’altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di
 riconosciuto…Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza;
essa è uscita fuori di sé. Ciò ha un duplice significato: in primo
luogo
l’autocoscienza ha smarrito se stessa perché ritrova se
stessa come una essenza diversa; in secondo luogo essa così ha
 superato l’altro, perché non vede anche l’altro come essenza, ma
 nell’altro vede se stessa. Essa deve togliere questo suo esser-altro”.

GWF Hegel, Fenomenologia dello Spirito, 1806

 

 Un corso di studi di Scienze umane e sociali dovrebbe partire da un’idea dell’uomo e della società, o quantomeno dal dibattito in corso sull’una e sull’altra, oggi del tutto aperto e ricco di implicazioni inedite rispetto al passato. Non stupisce che di tale dibattito non si trovi traccia nei nuovi profili dei due indirizzi di Scienze Umane e dell’Opzione, dato che la loro frettolosa stesura semiclandestina rispondeva a criteri non proprio culturali ma molto più prosaici. Ciò che rende ancor più necessario avviare una discussione sul senso attuale dei nostri indirizzi di studio e delle nostre discipline. Riprendendo alcune tematiche indicate in un breve contributo di qualche mese addietro mi propongono di esporre due tesi (non dico argomentare in modo adeguato, perché farlo richiederebbe molto più spazio e qualche competenza in più) su cui credo sarebbe molto proficua una riflessione comune.

 

Scienze umane o Scienze sociali?

   Ha ancora senso la distinzione tra scienze umane e scienze sociali, e cosa la giustifica? La scelta di azzerare l’indirizzo di Scienze Sociali sostituendolo con le Scienze Umane (di cui l’Opzione economico sociale costituisce una sorta di diramazione, o per meglio di dire di parente povero) non ha avuto alcuna giustificazione esplicita, almeno che io sappia, a meno che nella “cabina di regia” vi siano stati avvincenti dibattiti teorici sul tema. La mia ipotesi è che se vogliamo provare a ragionare attribuendo a tale scelta qualche dignità teorica (mettendo cioè da parte le logiche di altro genere che in ultima analisi hanno avuto la meglio) sia utile partire dalla considerazione che dietro la distinzione tra umano e sociale si cela una falsa contrapposizione tra individuo e società. In questa concezione l’individuo esiste prima della società, la quale sarebbe data dalla semplice aggregazione di più individui autonomi e di per sé indipendenti. Le scienze umane si occupano dunque dell’individuo pre-sociale così ipostatizzato, le scienze sociali delle sue relazioni con gli altri, e in questo senso il loro ruolo viene opportunamente ridimensionato. Che dietro questa idea ci stia qualche desueta forma di spiritualismo o si vada a braccetto con alcuni esiti solipsisti del moderno cognitivismo, la sostanza non cambia; anzi è possibile che si sia realizzato un mix di entrambi, ed è perciò che la“metafisica influente” che si intravede dietro il riordino assomiglia ad un indigesto connubio di integralismo e tecnocrazia.

   Il problema è che, da qualunque parte la si osservi, la ricerca attuale porta verso esiti radicalmente diversi. Proviamo a partire dall’Antropologia, che ovviamente si è a lungo occupata della “natura umana”.  In questo caso la nostra storia ha inizio in un lontano passato, con il processo di ominizzazione, così descritto da H. Popitz: “I singoli passi di questa evoluzione organica sono riconducibili all’acquisizione della stazione eretta e al successivo dispiegamento delle possibilità che essa permette: il disimpegno della mano…il ritirarsi della mandibola, l’ampliarsi della fronte, l’accrescersi della massa cerebrale e infine la costituzione della sua struttura”. Si realizza in tal modo un circuito virtuoso tra occhio, mano e cervello, che va visto “come un agente della filogenesi umana, come elemento dinamico della produzione dell’essere umano” (Verso una società artificiale, Editori Riuniti, 1996). E’ evidente che questo processo ha a che fare con la specie nel suo complesso: è la specie che si umanizza, ed i singoli individui ne condividono il destino.

   L’indagine sulla natura umana è stata recentemente stimolata ed arricchita dalla riscoperta di alcuni autori considerati i fondatori dell’antropologia filosofica, come Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen (per una visione di insieme cfr. M. T. Pansera, Antropologia filosofica, B. Mondadori, 2001). Di quest’ultimo è stata recentemente ripubblicata in Italia l’opera più significativa, del 1940, (L’uomo.La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, 2010), nella quale espone la tesi dell’uomo come essere carente, biologicamente inadatto alla sopravvivenza, che riesce a compensare questa mancanza attraverso la cultura, che per lui si configura come una “seconda natura”. Mentre le altre specie viventi sono caratterizzate da una ricca dotazione di istinti, che consente loro di adattarsi perfettamente all’ambiente, l’uomo è povero di istinti ed il suo ambiente è il mondo. Questa debolezza naturale dell’uomo si rovescia però in un fattore determinante della sua evoluzione, che lo mette in condizione di adattare ogni ambiente ai suoi bisogni, attraverso l’uso combinato della mente e delle mani. L’uomo, dunque, è un essere “naturalmente culturale”: la cultura non è qualcosa che si aggiunge “dopo” (quando?), alla sua formazione, ma caratterizza la specie umana sin dall’inizio. Un ruolo decisivo in questo processo è dato dalla neotenia, così descritta da M. Mazzeo : “L’essere umano è neotenico perché l’infanzia assume per noi un carattere cronico e permanente, grazie al rallentamento del processo di invecchiamento e di maturazione dell’organismo…alla nascita il cervello umano è pari al 28% della grandezza che raggiungerà in età adulta contro il 70% dei gibboni…e la dipendenza dalle figure genitoriali si protrae per diversi anni”. E, citando l’antropologo A. Montagu, prosegue: “…è del tutto erronea l’idea secondo la quale la vita dell’individuo comincerebbe con la nascita. La nascita non è niente di più che la fine del periodo di gestazione; rappresenta semplicemente il ponte tra la gestazione intrauterina e quella extrauterina” (M. Mazzeo, Per un’antropologia dell’ambivalenza, in “Forme di vita”, n.6, 2007). Se passiamo dunque dalla filogenesi all’ontogenesi, possiamo riscontrare che la costituzione della persona umana richiede un lungo periodo di formazione anche oltre la nascita. Ma, se ciò è vero, e mi sembra difficile che oggi lo si possa contestare, anche il processo di formazione del singolo individuo è socialmente condizionato. La socializzazione non interviene quindi solo attraverso il processo educativo, quando ormai, per così dire, la biologia ha fatto la sua parte; essa diviene parte costitutiva della formazione della mente, e dunque della identità di ciascuno, a partire dalla concreta realizzazione dei circuiti neuronali. Scrive Gerald M. Edelman: “nasciamo con un numero di geni insufficiente per specificare la complessità sinaptica di cervelli superiori come il nostro. Com’è ovvio, il fatto che abbiamo un cervello umano e non un cervello di scimpanzé dipende invece dalle nostre reti genetiche. Ma queste, come le reti cerebrali, sono enormemente variabili poiché le loro diverse forme di espressione dipendono dal contesto ambientale e dall’esperienza personale” (G.M.Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, R.Cortina, 2007, p 18).

   Una caratteristica essenziale dell’essere umano è il linguaggio, il cui ruolo nel processo di formazione, sia filogenetica che ontogenetica, è determinante. Riprendendo il concetto aristotelico di natura come manifestazione delle specifiche potenzialità di una specie vivente, Felice Cimatti afferma che in realtà la specie umana non è del tutto carente di istinti, perché “un istinto il nostro corpo ce l’ha, per quanto particolarissimo”, ed è “l’istinto del linguaggio. Ma, diversamente da quanto accade con gli altri istinti, che riducono lo spettro delle possibilità a vantaggio di un solo ambiente, il linguaggio umano agisce in senso opposto…è una macchina che genera ipotesi, ossia scenari possibili” (F. Cimatti, Il senso della mente, Bollati Boringhieri, 2004).

   L’analisi della struttura del linguaggio permette di guardare alla relazione tra umano e sociale da una prospettiva illuminante. Già nel 1934 Vygotskij scriveva: “Lo sviluppo del pensiero è, per Piaget, la storia della graduale socializzazione di stati mentali autistici, personali e profondamente intimi. Persino il linguaggio sociale viene considerato come una forma di linguaggio che non precede ma segue il linguaggio egocentrico. L’ipotesi che noi proponiamo capovolge questo corso …la funzione primaria del linguaggio, sia nei bambini che negli adulti, è la comunicazione, il contatto sociale. Il primissimo linguaggio del bambino è quindi essenzialmente sociale…Nella nostra concezione, la vera direzione dello sviluppo del pensiero non è dall’individuale al socializzato, ma dal sociale all’individuale” (Pensiero e linguaggio, ed. it. Giunti Barbera, 1984, pp.37-38). E ancora: “ Ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima fra le persone, come categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come categoria intrapsichica” (cit. da F. Cimatti in “Forme di vita”, n.5/2006). Intervenendo su questi problemi 25 anni dopo, Piaget sosterrà a sua volta: “…su alcuni punti mi trovo d’accordo col Vygotskij più di quanto avrei potuto esserlo nel 1934…egli avanzò una nuova ipotesi: che il linguaggio egocentrico sia il punto di partenza per lo sviluppo del linguaggio interiore…e che questo linguaggio interiorizzato possa servire sia ai fini autistici che al pensiero logico. Io sono completamente d’accordo con queste ipotesi…In breve, sono d’accordo col Vygotskij quando conclude che la funzione iniziale del linguaggio deve essere quella della comunicazione globale e che più tardi il linguaggio diventa differenziato in linguaggio egocentrico e linguaggio comunicativo propriamente detto”(Pensiero e linguaggio, cit, pp.242-43). Non è qui essenziale determinare se la tardiva lettura di Vygotskij abbia fatto cambiare in modo significativo il modo in cui Piaget intendeva la relazione tra pensiero e linguaggio, quanto il fatto che la posizione di Vygotskij (e Lurija) ha, in modo carsico, influenzato profondamente la ricerca successiva, nonostante il periodico prevalere di posizioni teoriche opposte, per ultima quella cognitivista.

   La “rivoluzione cognitiva”, come è stata definita da H. Gardner, ha avuto un ruolo che è difficile sottovalutare nel panorama scientifico contemporaneo. Coinvolgendo molteplici discipline (oltre alla psicologia, la linguistica, l’antropologia, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la filosofia della mente), può essere considerata come un vero e proprio mutamento di paradigma, che ha accompagnato la rivoluzione informatica, che a sua volta ha modificato profondamente il mondo industrializzato. Se, a fronte di tanti meriti, una responsabilità può esserle riconosciuta, è quella di avere riproposto in termini quasi insolubili l’antica contrapposizione tra corpo, mente e mondo, di cartesiana memoria.  Addentrarsi nel multiforme panorama delle teorie della mente in vario modo riconducibili al cognitivismo non è qui ipotizzabile. Per quanto schematico, non credo sia tuttavia fuorviante riferirle ad un denominatore comune: la descrizione dell’attività mentale in termini di rappresentazioni formali e di regole per elaborarle. Da qui l’analogia tra la mente ed il computer e l’idea di una implementazione della mente diversa dal cervello. Ma, mentre da un lato si manifestano significativi ripensamenti interni allo stesso cognitivismo: “l’innatismo computazionale è senza ombra di dubbio la migliore teoria della mente cognitiva che sia mai stata concepita finora…Ciò malgrado, è assai plausibile sospettare che questa teoria sia, in larga misura, falsa” (Jerry A. Fodor, La mente non funziona così, Laterza, 2001), sino ad oggi qualunque tentativo di realizzare delle macchine pensanti si è scontrato con le enormi difficoltà di dare ad un robot, oltre alle funzioni computazionali, anche quelle di un corpo che sente ed ha un ruolo insostituibile, oltre che nel determinare emozioni, sentimenti e desideri, anche nella formulazione dei pensieri. Pare cioè che non sia proprio possibile realizzare una mente umana disincarnata. (Vedi ad es. le ricerche di un esperto di robotica come Domenico Parisi: D. Parisi, Mente. I nuovi modelli della Vita Artificiale, Il Mulino, 1999; Id., Una nuova mente, Codice edizioni, 2006; cfr. anche Edelman, Seconda natura, cit.).  

   Buona parte della ricchissima ricerca teorica di Husserl ha avuto l’obiettivo di cogliere il nesso necessario tra l’io, l’altro e il mondo nella costituzione della soggettività. Anticipando con straordinaria acutezza tante ricerche contemporanee, il fondatore della fenomenologia giunge alla convinzione che “la ragione non risiede nella coscienza del singolo, non è qualcosa che ogni individuo possiede in pari misura. Essa è, al contrario, qualcosa che si costituisce intersoggettivamente. Ridotto al solus ipse io non potrei accedere a quel concetto di ragione che è il correlato del vero essere…Il vero essere si costituisce dunque in atti soggettivi, che però non sono quelli del singolo soggetto, bensì gli atti che fanno capo a una comunità intersoggettiva…La ragione non è, dunque, uno spirito del mondo che aleggia sopra i singoli soggetti, ma qualcosa che accade all’intersezione e nell’interazione tra i singoli soggetti e, proprio per questo, però, si radica in ogni singolo soggetto in quanto questi si interroga sulla legittimità dei suoi atti, aprendosi, nello stesso tempo, alla correzione intersoggettiva” (V. Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose, Rubbettino, 2007).

   Oggi viene sottolineata da più parti la sorprendente corrispondenza tra gli esiti della ricerca fenomenologica e quelli delle neuroscienze (vedi ad es. il libro curato da M. Cappuccio: AAVV, Neurofenomenologia, B. Mondadori, 2006). Non a caso dalla fenomenologia sono influenzati anche alcuni filosofi della mente fortemente critici del cognitivismo, come H.L. Dreyfus ed Andy Clark. Del primo scriveva Sergio Moravia: “A una possibile domanda sul ‘dove’ avvengono gli eventi mentali la risposta più appropriata è per Dreyfus che ‘avvengono in un mondo condiviso [con altri] nel quale siamo circondati da cose e da individui esterni a noi, e non nei nostri cervelli né nelle nostre menti’. E alla possibile domanda su ‘chi’ sia l’agente, il soggetto reale degli atti mentali, la risposta più appropriata pare essere la persona: non certo la mente” (S. Moravia, L’enigma della mente, Laterza, 1986; ma di Dreyfus vedi Che cosa non possono fare i computer, Armando, 1988). Riguardo ad Andy Clark, Daniel Dennet sintetizza così la sua idea: “…le menti sono composte di attrezzi per pensare che noi non solo otteniamo dal mondo sociale più ampio, ma che prevalentemente vivono nel mondo, piuttosto che ingombrare il nostro cervello”. Direi, con buona pace del solipsimo, da qualunque parte esso provenga. (di Andy Clark vedi Dare corpo alla mente, McGraw-Hill, 1999; ma il titolo originale, ben più significativo è: Being There. Putting Brain, Body and World Together Again).

   Alla metà degli anni novanta Giacomo Rizzolatti ed il suo gruppo di lavoro presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma, scoprono l’esistenza, nella corteccia ventrale premotoria della scimmia ed in seguito in altre aree del cervello, dei neuroni-specchio, che vengono attivati non solo quando l’animale compie un’azione, ma anche quando osserva un altro che la compie. Successivamente, lo stesso gruppo, e ricercatori di altre università, confermano l’esistenza dei neuroni-specchio anche nell’uomo. Qual è l’importanza di questa scoperta in relazione al nostro argomento, cioè alla relazione tra umano e sociale? “Essi attestano un livello-base delle nostre relazioni interpersonali, costituito da un meccanismo di ‘risonanza immediata’ non cognitivistico tra me e gli altri…I neuroni –specchio sono una specie di sapere vissuto, conseguente alla capacità di agire e automaticamente funzionante come canone di comprensione degli altri. In questo senso, essi forniscono la base neurofisiologica dell’originaria situazione d’interdipendenza e relazionalità tra gli esseri umani, indipendente da operazioni cognitive” (L. Boella, L’empatia nasce nel cervello?, in AAVV, Neurofenomenologia, cit.).  Quindi, la relazione dell’uomo con i suoi simili è assicurata da una “intersoggettività” originaria, che precede la costituzione della mente individuale. Il “noi” è presente prima ancora che si possa parlare di un “io” autocosciente; i neuroni-mirror costituiscono pertanto il fondamento biologico della socialità della mente (vedi tra gli altri V. Gallese, Le basi cerebrali dell’intersoggettività, in “Forme di vita”, n.4/2005). Da tutte queste considerazioni mi pare emerga con sufficiente chiarezza come una netta distinzione tra umano e sociale non sia sostenibile, perché non esiste un umano pre-sociale. L’essere umano diventa tale, filogeneticamente ed ontogeneticamente condividendo con i propri simili tutti gli elementi costitutivi del suo essere uomo. Riproporre dunque ancora oggi la distinzione tra scienze umane e scienze sociali, non tiene alcun conto degli esiti di un intenso lavoro interdisciplinare che dovrebbe indurre a riformulare radicalmente alcuni elementi di base dell’attività formativa.

 

Scienze naturali e scienze umano-sociali

   Il dibattito sulla relazione, o sulla contrapposizione, tra le scienze umane e quelle naturali, oggi può essere affrontato con maggiore consapevolezza critica rispetto al passato a partire da alcune premesse: 

  1. La crisi dell’epistemologia contemporanea ha di fatto dissolto la vecchia querelle sulle insufficienti garanzie di scientificità delle prime rispetto alle cosiddette “scienze esatte”. Direi che l’itinerario dell’ epistemologica contemporanea, da Popper a Lakatos, sino a Kuhn e Feyerabend, ha progressivamente evidenziato la strutturale incertezza della ricerca scientifica anche nell’ambito delle scienze naturali. Se prima le scienze umane scontavano una storica sudditanza, perché da un lato non erano in grado di adottare rigorosi metodi quantitativi di indagine, e dall’altro non potevano affidarsi sistematicamente ad una verifica sperimentale, oggi il carattere probabilistico delle stesse scienze della natura ha fatto scendere queste ultime dal piedistallo su cui erano state messe.
  2. Abbiamo ormai sufficienti riprove del fatto che la ricerca scientifica riesce ad ottenere risultati significativi se accetta la sfida di rompere le barriere disciplinari. Non occorre ricordare ai frequentatori del nostro sito il lavoro pluridecennale di Morin o quello testimoniato nel volume curato da G. Bocchi e M. Ceruti (AAVV, La sfida della complessità, B. Mondadori, 2007; la prima edizione è del 1983), e accennavo sopra all’esempio della cosiddetta “rivoluzione cognitiva” (vedi H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, 1988).

   L’ottica che vorrei proporre si riferisce però ad un’altra prospettiva di analisi, suggerita dal lavoro della rivista “Forme di vita” (pubblicata da DeriveApprodi) e da molteplici studi dei suoi collaboratori. Rendere conto di una attività di ricerca che spazia dalla linguistica alla filosofia della mente, alla psicologia, alla neurologia, all’antropologia, alla biologia e molto altro non è qui materialmente possibile. Mi limito pertanto ad indicare una delle tesi centrali di questo gruppo di lavoro, ben sintetizzata da Paolo Virno in alcune sue opere. Virno parte da una rilettura di Arnold Gehlen e dalla sua tesi dell’uomo come animale naturalmente culturale, cui ho già accennato. Data l’importanza di questo riferimento, mi sia consentita una lunga citazione, credo di per sé significativa, dello stesso autore.

 “Dal punto di vista morfologico -a differenza di tutti i mammiferi superiori- l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè carenze di sviluppo, e dunque in senso essenzialmente negativo…La tendenza dell’evoluzione naturale è a adattare forme di alta specializzazione ai loro rispettivi e ben determinati ambienti…L’uomo invece, dal punto di vista morfologico, si può dire non abbia specializzazioni…è in quanto essere naturale irrimediabilmente inadeguato. Egli è di una sprovvedutezza biologica unica, e si rivale di queste carenze soltanto grazie alla sua capacità di lavoro ovvero alle sue doti per l’azione, grazie cioè alle mani e all’intelligenza” (A. Gehlen, L’uomo, cit, pp.70-71).

   “L’apertura dell’uomo al mondo significa che egli difetta dell’adattamento animale a un particolare ambiente…La non specializzazione fisica dell’uomo, la sua carenza di strumenti organici, al pari della deficienza stupefacente di autentici istinti sono dunque in connessione reciproca, il cui rovescio concettuale è la scheleriana ‘apertura al mondo’ o, il che è lo stesso, il disancoraggio da un ambiente preciso…Già qui si prospetta un compito di grande rilievo fisico e vitale: l’uomo deve trovare a se stesso degli esoneri…cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita” (ib., pp.73-4).

   “In conseguenza del suo primitivismo organico, e della sua carenza strumentale, l’uomo è incapace di vivere in ambiti realmente naturali e originari. Deve dunque surrogare i mezzi di cui organicamente difetta, e lo fa trasformando attivamente il mondo in qualcosa di utile alla sua vita…L’insieme della natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile alla propria vita dicesi cultura, e il mondo della cultura è il mondo umano. Per lui non si dà possibilità di esistenza nella natura immodificata, non ‘addomesticata’, e non esiste ‘uomo allo stato di natura’ in senso stretto…La cultura è pertanto la (sua) ‘seconda natura’” (ib., p.75).

   Queste caratteristiche, presenti in modo inalterato in ogni essere umano “dal Cro-Magnon in poi”, costituiscono per Virno (come per Gehlen) l’”invariante biologico” dell’Homo sapiens, caratteri permanenti nonostante le profonde diversità culturali che si manifestano nelle diverse epoche storiche. Sbaglia dunque chi, come Geertz o Foucault, tende a dissolvere i caratteri naturali della specie umana contrapponendovi la sua radicale storicità. Geertz propone di superare la distinzione tra scienze naturali e scienze umane annullando le prime nelle seconde, dato che, a suo avviso, anche le scienze naturali hanno un fondamento socio-culturale; quindi, per eliminare la dicotomia tra biologia e cultura occorre umanizzare o socializzare la biologia (vedi C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, 1988, e Antropologia filosofica, Il Mulino, 2001; cfr. anche F. Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, 2007). Foucault, in uno storico dibattito con Chomsky del 1971, contrappone, al tentativo di quest’ultimo di indicare nel linguaggio una caratteristica invariante della natura umana, una immagine integralmente culturale dell’uomo. “In questa immagine, l’uomo è essenzialmente un produttore di rappresentazioni” ed “è facile vedere che questa immagine integralmente culturale dell’uomo portava con sé la sua indefinita plasticità, o, come a volte si è detto, la dissoluzione della natura umana” (D. Marconi, Il ritorno della natura umana, in N. Chomsy e M. Foucault, Della natura umana, DeriveApprodi, 2005).

   Ora, sostiene Virno, “d’accordo, l’invariante biologico non può mai essere separato dal mutevole decorso storico: ma non è, questo, un argomento sufficiente a negare l’invariante come tale, o a trascurare i modi in cui esso - restando invariante, si badi - erompe sulla superficie dei diversi sistemi sociali e produttivi”(P. Virno, Scienze sociali e natura umana, Rubbettino, 2002). E ancora: “L’invariante biologico che contraddistingue l’esistenza dell’animale umano è riconducibile al concetto filosofico di dynamis, potenza. Sotto il profilo temporale, potenza significa non-ora, inattualità, deficit di presenza…La potenzialità dell’Homo sapiens: a) è attestata dalla facoltà di linguaggio; b) fa tutt’uno con la non specializzazione istintuale; c) trae origine dalla neotenia; d) implica la mancanza di un ambiente univoco” (P. Virno, Diagrammi storico-naturali, in “Forme di vita”, n.1/2004).

   La storia sociale, caratterizzata appunto dalle incessanti conquiste della cultura, che compensano le nostre carenze strutturali, normalmente non fa apparire gli elementi invarianti della nostra costituzione, proprio perché la compensazione è ben realizzata. La prassi sociale e politica pone rimedio alla mancanza di un ambiente specifico dell’uomo costruendo pseudoambienti, “la non specializzazione si esplica come puntigliosa divisione del lavoro, ipertrofia di ruoli permanenti e di mansioni unilaterali…la cultura si impegna a stabilizzare l’’animale indefinito’, a lenire o velare il suo disambientamento, a ridurre la dynamis che lo caratterizza a un novero circoscritto di atti potenziali. La natura umana è tale da implicare assai spesso un contrasto tra le sue espressioni e le sue premesse” (P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, 2003).

“Questi caratteri salienti della nostra specie sono per lo più attutiti nelle società tradizionali, articolate come pseudoambienti in cui predomina la ripetitività, la stanzialità, una rigida divisione delle mansioni (dunque una specializzazione socialmente indotta dell’animale umano, di per sé non-specializzato). La cultura pone rimedio (provvisorio rimedio, e storicamente mutevole) alla carenza di un ambiente definito. Sicché, la ‘natura umana’ emerge sul piano storico-sociale solo in certe esperienze, o stati d’animo, relativamente eccezionali.Emerge nel corso di una crisi (economica, sociale, politica), quando cioè le abitudini pseudoambientali vanno in pezzi, gli automatismi fanno cilecca, torna a farsi sentire apertamente l’incertezza e l’indecisione” (P. Virno, Scienze sociali e “natura umana”, Rubbettino, 2003).

   Nella società contemporanea emergono però proprio quelle invarianti biologiche dell’essere umano che nelle epoche precedenti erano state occultate dal prevalere delle forme storiche dell’attività compensativa della cultura. Il postfordismo, che caratterizza l’epoca presente, attualizza e sfrutta ai propri fini proprio quelle caratteristiche naturali della specie umana che prima potevano emergere solo nei momenti di crisi. Non c’è qui lo spazio anche solo di accennare alla ormai vasta letteratura sull’argomento. Mi limito perciò a riportare una breve sintesi di R. Finelli sui caratteri del capitalismo contemporaneo:

   “Il postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il ‘corpo’ e comincia ad essere la ‘mente’. Quando cioè funzione fondamentale del processo produttivo per quanto concerne la forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che si tratti infatti di erogazione di energia lavorativa alla macchina informatica sia che si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta ‘qualità totale’, ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza-lavoro al capitale non è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di questi, la sua capacità di scelta, la sua intera complessità emozionale-intenzionale è ciò che infatti ora serve al capitale da quando l’automazione unita all’informatica espelle forza-lavoro manuale e richiede forza-lavoro mentale e da quando la filosofia dell’azienda tende a richiedere un lavoro cosiddetto riflessivo, capace cioè di assumere il proprio costante miglioramento a oggetto di se stesso. In particolare la macchina informatica richiede una forza-lavoro mentale particolarmente subalterna ed omogenea,essendo la sua caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano e di dar luogo così a una mente artificiale di cui quella umana diventa solo funzione e appendice” (R. Finelli, Alcune tesi su capitalismo, marxismo e “postmodernità”, in AAVV, Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’età telematica, Manifestolibri, 1998).

   A questi caratteri della società attuale fa riferimento Virno proseguendo la sua analisi:

   “Il capitalismo contemporaneo ha modificato alla radice il rapporto tra inalterabili prerogative filogenetiche e prassi storica. Le forme di vita oggi prevalenti non velano, ma ostentano senza remore i tratti differenziali della nostra specie. L’attuale organizzazione del lavoro non smorza il disorientamento e l’instabilità dell’animale umano, ma, tutt’al contrario, li porta al diapason e sistematicamente li valorizza. La potenzialità amorfa, ovvero la cronica persistenza di caratteri infantili, non balena minacciosamente nel corso di una crisi, ma pervade ogni piega della più trita routine. La società della comunicazione generalizzata, lungi dal paventarlo, mette addirittura a profitto l’’eccesso di semanticità non risolubile in significati determinati’, conferendo quindi il massimo risalto alla indeterminata facoltà di linguaggio” (P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit.).

   “La carenza di istinti specializzati e la penuria di un ambiente circostanziato, sempre uguali dal Cro-Magnon in poi, figurano esplicitamente, oggi, come ragguardevoli risorse economiche. Non è difficile constatare la plateale corrispondenza tra certi caratteri salienti della ‘natura umana’ e le categorie sociologiche che più si attagliano alla situazione attuale. La non specializzazione biologica dell’Homo sapiens non resta sullo sfondo, ma guadagna la massima appariscenza storica come universale flessibilità delle prestazioni lavorative. L’unico talento professionale che davvero conti nella produzione postfordista è l’abitudine a non contrarre durevoli abitudini, ossia la capacità di reagire tempestivamente all’inconsueto. Una competenza univoca, modulata in ogni dettaglio, costituisce ormai un autentico handicap per chi è costretto a vendere la propria forza-lavoro. E ancora: la neotenia, ossia l’infanzia cronica e il connesso bisogno di un addestramento continuativo, trapassa linearmente, senza mediazioni di sorta, nella regola sociale della formazione ininterrotta. Le carenze del ‘parto costitutivamente prematuro’ si convertono in virtù produttive” (P. Virno, Diagrammi storico-naturali, p.111).

   Possiamo ora tornare al nostro ragionamento iniziale. Schematizzando si possono individuare due tendenze nel dibattito culturale recente sulla relazione tra natura e cultura, scienze naturali e scienze sociali: da un lato il pensiero ermeneutico, dall’altro il cognitivismo. Entrambi si rivelano, alla luce di quanto sopra esposto, del tutto unilaterali, e perciò inadeguati a dare una soddisfacente soluzione al nostro problema. L’ermeneutica, come si accennava sopra riferendosi a Geertz e a Foucault, nega l’esistenza di ogni invariante biologico e di qualcosa come una “natura umana”. Le scienze cognitive a loro volta, propongono una visione astorica ed asociale dell’uomo, e perciò non appaiono in grado di cogliere la specificità dell’esistenza umana. Il collettivo della rivista “Forme di vita” propone una terza possibilità in un programma di “naturalizzazione delle scienze sociali”, che metta in primo piano l’intreccio tra il momento biologico-naturale e quello storico-linguistico, fra il piano empirico e quello trascendentale della realtà naturale umana (da quello che si è sin qui detto è chiaro che non si tratta di un ossimoro). E’ da qui a mio avviso che può essere utile e molto stimolante continuare il nostro lavoro in direzione di una terza cultura