I docenti a difesa delle Scienze Sociali e del LES

 

Mentre il nostro appello registra l'adesione di più di duemila firmatari, la preoccupazione cresce, come anche gli appelli per una riflessione più approfondita, ed un'altra petizione è stata lanciata da Change.org.

Sulla paventata eliminazione delle Scienze Sociali e del Liceo Economico Sociale dal panorama della scuola italiana si mobilitano intanto i docenti di moltissime scuole, in tutta Italia, come singoli e anche nei loro organi collegiali, dipartimenti, collegi, consigli. 

Non per una battaglia sindacale - che pure sarebbe sacrosanta - ma anzitutto e soprattutto in difesa di un orizzonte culturale che vede nelle Scienze Sociali un presupposto ed un avamposto della massima importanza per la comprensione della complessità contemporanea.

Pubblichiamo e facciamo nostro  il documento di un componente 'storico' di SISUS, Paolo Cinque, già docente di Filosofia e Scienze Umane, che ben interpretail nostro sbigottimento e al contempo richiama con chiarezza e lucidità le motivazioni di natura storica e culturale che sono alla base di questra nostra battaglia.

LES, ovvero L’Equivoco Sociale

DAL LICEO SOCIALE AL LICEO AZIENDALE

Il precipitare di notizie riguardanti la decisione governativa di “assorbimento” del Liceo Economico-sociale (LES) in un nuovo Liceo del marchio aziendale detto “ del Made in Italy”, ha prodotto espressioni d’indignazione e sconcerto nel mondo dell’istruzione superiore, compreso quello sindacale. Non ancora, tuttavia, così estese da coinvolgere in un gesto di denuncia più clamoroso e collettivo il “mondo della scuola” nel suo complesso, e il mondo della cultura. Si attende ancora che almeno il “corpo docente” – curiosa espressione che riecheggia vagamente un linguaggio di tipo corporativo – renda ancora più chiara e sollecita la sua protesta su questo epilogo, che prospetta un grave impoverimento nella formazione superiore: uno sconcio scolastico, un vandalismo culturale di lunga durata, molto più significativo delle irritanti “bravate” d’imbrattare i monumenti artistici “made in Italy” con vernici lavabili.

Se, con l’andare del tempo, l’accidia degli insegnanti, ma anche degli studenti, delle loro famiglie e del mondo della cultura, dovesse assumere una definitiva connotazione di passività e indifferenza verso il problema, fino a essere condivisa anche alla pubblica opinione, vorrà dire che la convergenza di fatto tra la volontà liquidatoria di questo governo e la pigrizia fatalistica delle non-risposte indicheranno che il LES attuale ha i giorni inesorabilmente contati.

Quelli che ne reclamano la validità e la permanenza hanno tutte le buone ragioni per sostenere che esso offre uno spazio culturalmente inedito e prezioso, cioè una prospettiva di formazione ai saperi essenziali per la comprensione dei fenomeni storico-sociali più tipici della contemporaneità: antropologia culturale, psicologia socio-culturale, sociologia non sono semplici conoscenze ma strumenti epistemologici che concorrono alla formazione di una mentalità complessa – di carattere anche etico – correlativa alla complessità del mondo storico contemporaneo e agli atteggiamenti di fronte ad esso.

 

Un po’ di storia, se non dispiace: nella sperimentazione pre-ordinamentale (dal 1998 a livello nazionale, ma anche prima, e fino al 2009) questi saperi, assieme al diritto, all’economia, alla storia (anch’essi ovviamente “scienze sociali”, già presenti nei curricula), alla storia dell’arte e alla filosofia, costituivano un “blocco umanistico” che definiva un “asse formativo” di carattere storico-antropologico. L’originale significatività consisteva nel fatto che Antropologia, Sociologia e Psicologia socio-culturale venivano incluse per la prima volta come materie d’insegnamento diretto nella scuola italiana e segnavano, per così dire, la “cifra” di un Liceo inedito. Se si aggiungono poi un paio di lingue straniere, la lingua e la letteratura italiana, la matematica, le scienze naturali, l’educazione fisica e motoria, l’educazione musicale, l’inevitabile (cioè concordatario) insegnamento della religione, in opzione ad altra attività didattica, si aveva un quadro complessivo dello spessore culturale di quella proposta sperimentale, praticata e coordinata in più di trecento scuole su tutto il territorio nazionale. Si è trattato di quindici anni almeno di sperimentazione – preceduti da alcuni anni di sperimentazione locale in alcuni istituti – ai quali sono seguiti quasi quindici anni di attuazione in ordinamento. Alle spalle si potevano poi ascoltare gli echi di un dibattito culturale sull’insegnamento delle scienze sociali nelle scuole superiori, iniziato negli anni ‘70 con un’autorevole pubblicazione a più mani sull’argomento (AA.VV, Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, Einaudi, Torino 1977-78). Complessivamente, perciò, tra dibattito culturale, sperimentazione e attuazione ordinamentale, un Liceo del genere ha cumulato una storia di almeno mezzo secolo, con una sua coerenza, un suo senso, e anche un suo successo nella popolazione scolastica: sorgeva da premesse culturali, si sviluppava attraverso un’ipotesi sperimentale, approdava ad una realtà scolastica correlativa. Partita da un testo degli anni ‘70, arrivava tra l’altro anche ad un altro testo di bilancio dell’esperienza, trent’anni dopo, scritto questa volta da docenti della sperimentazione stessa (CSS, Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, a cura di Clotilde Pontecorvo e Lucia Marchetti, Le Scienze sociali trent’anni dopo, Marsilio, Venezia 2007).

Come se non bastasse, ancora prima che “alternanza scuola-lavoro” prendesse piede fra le pratiche della scuola superiore, quella sperimentazione era riuscita ad inserire nel curriculum la buona pratica dello “stage formativo”, cioè dell’osservazione e studio del territorio, come complesso dei servizi che in esso si svolgono, attraverso la mediazione di tutor esterni facenti parte dell’organizzazione osservata, e di tutor interni, cioè di un insegnante del corso. Le materie curricolari sarebbero state utilizzate come guida per la comprensione della realtà sociale osservata e il territorio circostante, inteso come insieme di servizi, diventava il “testo” scolastico di riferimento.

Tutto questo è familiare per l’insegnante che ha “scommesso” su questa tipologia di scuola, partecipando attivamente nella ricerca degli anni di sperimentazione fino a riconoscere nel LES un frutto residuo ma coerente del suo sforzo, perché le scienze sociali venivano finalmente riconosciute come materie d’insegnamento, secondo un modello che lui stesso aveva contribuito a definire.

Si è trattato di un abbaglio? Sì e no, contemporaneamente, in un certo senso. Si può affermare, piuttosto, che si è trattato di un inganno, di un’impostura.

Non è stato un abbaglio perché quelle materie esistono tuttora nel LES e, grazie al loro innegabile valore come strumenti di comprensione della realtà storica, lo costituiscono tuttora come scuola dagli aspetti innovativi: il LES stesso era presentato come esito, come conseguenza della sperimentazione appena attuata.

Tutto questo, però, non può far dimenticare che l’istituzione del LES, delineato dal lavoro della “cabina di regìa” della ministra Gelmini al termine della sperimentazione nazionale, è stato innanzitutto vissuto come un impoverimento – da alcuni perfino come un “tradimento” – del modello di “Liceo delle scienze sociali”. Gli insegnanti che erano stati artigiani-ricercatori nella sperimentazione entravano però nel nuovo ordinamento e agivano nel solco di quelle suggestioni culturali e della prospettiva istituzionale, trasportando, doverosamente e coerentemente, quel loro modello anche dentro il LES, per quanto apparisse “ridotto” (o “essenzializzato” nel luciferino linguaggio ministeriale). La presenza di un blocco umanistico storico-sociale era così evidente e caratterizzante che gli insegnanti hanno finito per vedere in un Liceo del genere l’eco del modello iniziale. Non lo hanno affatto “snobbato”.

Quella “essenzializzazione” luciferina conteneva un equivoco, però, che gli ultimi avvenimenti si incaricano oggi di smascherare; il riduttivismo rispetto alla sperimentazione era evidente nella “curvatura” economicistica degli studi, dove la presenza dell’economia prevaleva sul carattere sociale complessivo e faceva venir meno l’asse formativo di carattere storico-antropologico. Nulla di pregiudiziale contro l’economia, ma cambiava la “bussola”, per così dire, con la conseguenza che l’orientamento prevalentemente economicistico assumeva ora una connotazione potenzialmente “aziendalistica”. Nella denominazione ufficiale del Liceo è denotato un nuovo asse formativo. Il termine “sociale” permane ma l’accento che cade sulla sfera economica poteva essere strumentalmente interpretato per veicolare facilmente una didattica delle tecniche di “economia aziendale” in senso manageriale, piuttosto che la didattica dell’economia come scienza sociale dei processi complessivi della produzione e del lavoro materiali. Se questo non è avvenuto nel LES è un merito degli insegnanti di economia e diritto, ma non toglie nulla al carattere economicistico dell’orientamento e alla sostituzione di un “asse” formativo (quello storico-antropologico) con un altro (quello economico). Non sono sottigliezze, Lucifero sta nei dettagli.

Il Liceo “Made in Italy” non è quindi nato solo da una battuta governativa, significativamente pronunciata durante una fiera di prodotti vinicoli, ma riprende e dà continuità all’idea di declinare il LES in un’ottica imprenditoriale. Anche questo ha una storia, meno lunga di quella del LES: affonda le sue radici nel modello delle tre “I”: Impresa, Internet, Inglese, “cifra” che, una volta applicata al LES, poteva segnare già da allora il destino di questo liceo.

Così, nella storia della sua istituzione ordinamentale si sono sovrapposte e intrecciate due linee, due modi di guardare alle cose, due intenzioni diverse: all’orientamento iniziale, che partiva da un dibattito culturale e si sviluppava attraverso una conseguente sperimentazione didattica di carattere scientifico, ne è subentrato un altro che, partendo da quella stessa sperimentazione, ha tentato di dare ad essa un’impronta che poteva erodere, per quanto possibile, quell’asse culturale originario, per piegare il Liceo ad un adattamento che era già potenzialmente, cioè tendenzialmente, “aziendale” e “imprenditoriale”.

Una volta spogliato il liceo delle scienze sociali del suo “asse fondativo” e una volta spogliato il LES del suo blocco di materie sociali, la nudità del re appare quindi, oggi, in tutta la sua evidenza.

Non viene ferita solo la suscettibilità di quella parte dei docenti che ha partecipato direttamente alla sperimentazione: essa non era svolta da un circolo esclusivo di privilegiati, ma si costituiva come azione verso tutti i docenti del curriculum e per tutti i docenti che sarebbero subentrati in ruolo. Non è difficile trovarne alcuni che si sono sentiti “presi per mano”, perché quella novità poteva indurli alle comprensibili perplessità di chi aveva sempre insegnato, ad esempio, psicologia e pedagogia, o proveniva da una laurea in sociologia e trovava imbarazzi nel modificare le proprie abitudini in modo così profondo. Chi scrive appartiene a questa tipologia di insegnanti e la sperimentazione ha rappresentato per lui lo sviluppo e il culmine della sua professione. Non è stata affatto un’esperienza isolata, ma ha mosso la curiosità ch’era preludio ad un più profondo coinvolgimento. Il costituirsi di “scuole polo” e di reti di insegnanti “LES” ne sono la controprova. Questo liceo non è diventato uno “scarrafone” da sopportare ma una risorsa da utilizzare e rivendicare.

In questa trasmissione intercurricolare e generazionale del modello, la pura e semplice evidenza del blocco delle materie sociali nel LES costringeva il docente a fare comunque i conti con quella realtà scolastica di fatto, utilizzando la risorsa che essa offriva loro, senza troppi “se” e “ma”, soprattutto senza considerarlo un liceo “minore”. Per tutti vale il presupposto che un liceo con un un blocco curricolare di materie sociali concorre a formare, più di altri indirizzi, una mentalità complessa di fronte alla contemporaneità storica: perciò, senza battere ciglio, i docenti si sono dedicati a coltivare quella opportunità, nel convincimento che esso fosse uno spazio essenzialmente sociale.

Ora, però, quel blocco di materie sociali caratterizzanti viene meno: di quale “assorbimento” si sta parlando, dunque, se scompaiono dal curriculum “made in Italy” le materie che apparivano essenziali al liceo che viene assorbito? Non di “assorbimento” si tratta, ma di pura e semplice “estinzione”: è bene che ne siano consapevoli quegli insegnanti che sono sensibili agli aspetti qualificanti della loro professione. E non solo loro.

Il Liceo del “Made in Italy” può quindi essere visto come l’esito consequenziale di una tendenza già presente, come sintomo pericoloso, subdolo, nel lavoro di mistificazione della sperimentazione attuato dalla “cabina di regìa” della ministra Gelmini, così che il LES può essere oggi visto anche come “portatore sano” della sua degenerazione nel “made in Italy”: in questa fase terminale le “scienze sociali” possono essere tranquillamente cassate perché superflue, e la sperimentazione è stata colpita ed affondata, cioè utilizzata per uno scopo estraneo. Contemporaneamente, nel “Made in Italy” possono essere proposte materie curricolari senza alcuna preoccupazione che siano già quasi tutte già presenti – e siano quindi pleonastiche – negli Istituti Tecnico-commerciali. È così “eccellente” quella proposta, agli occhi dei proponenti, che le materie del suo curriculum possono essere in parte copiate e incollate.

Dal canto loro, i docenti di scienze sociali – almeno quelli che del LES vogliono fare una battaglia – non si sono comportati da ingenui e patetici sentimentali, affezionati a questo liceo nonostante le critiche. Piuttosto, lo hanno vissuto come lo spazio didattico in continuità della loro azione formativa, in coerenza con quanto gli orientamenti della sperimentazione ministeriale stessa evidenziavano: hanno agito così, perché quella presenza di discipline sociali nel curriculum consentiva di conservare quel “nucleo” di originalità formativa, che manca nelle altre scuole superiori e ne costituisce l’eccellenza. È perciò per loro del tutto legittimo vedere che mentre il Governo si affretta a presentare la proposta del “Made in Italy” come novità significativa, sta in effetti procedendo a realizzarla a scapito di un’altra realtà originale e significativa. Agli occhi del Governo, dal canto suo, la sostituzione del LES con il “ Made in Italy” è la conclusione di un percorso che realizza il progetto di “sdoganamento” dell’azienda e dell’impresa come oggetto della formazione scolastica. Questa sostituzione è dunque una vera e propria impostura, nel senso letterale, perché “impone” un significato a qualcosa che era stato realizzato con un significato e un’intenzione diversi e addirittura opposti: un inganno scolastico, dunque, uno sconcio nella formazione, un vandalismo culturale, originati dall’equivoco sociale di spingere verso le aziende una scuola che era stata concepita e orientata verso la società.

La scommessa dei docenti sul blocco umanistico dei saperi presenti nel curriculum del LES non è affatto venuta meno, con questo, perché ha anzi contribuito ad evidenziare che un profilo storico-sociale è possibile – e va semmai potenziato – proprio valorizzando quei saperi che un orientamento aziendalistico considera trascurabili per i suoi scopi, nonostante le affermazioni propagandistiche che esaltano – e millantano – l’adeguatezza e l’eccellenza “generalista” di un Liceo Made in Italy, di un Liceo così “patriottico”, se si vuole tradurre quell’anglicismo fuori luogo.

È altresì evidente che questa contrapposizione verso un governo autoritario non può essere condotta dalle sole componenti scolastiche e sindacali. Un liceo ad orientamento sociale è nato da un dibattito culturale ed è essenziale che si rivolga anche a quello stesso contesto extrascolastico, per sensibilizzare e chiedere un sostegno, dal momento che una società complessa ha bisogno, oltre che di manager e impiegati aziendali, di sociologi, psicologi sociali, mediatori culturali, antropologi, che di essa si prendano cura. A meno che non si voglia fare come negli U.S.A. dove Paul Goodman (“La gioventù assurda”, tr. it. Einaudi 1971) faceva notare che la riforma carceraria di un certo stato dell’Unione era stata affidata ad un’industria farmaceutica: lo considerava un sintomo dei nostri tempi.

Questo personale per i servizi sociali di livello alto e medio-alto è essenziale che sia preparato a livello liceale e poi universitario, perché non solo il settore alimentare, tecnologico, del marketing, del fashion e del design ha bisogno di personale adatto: anche i diversi aspetti della vita sociale necessitano di persone che si dedichino alla gestione dei servizi correlativi, senza dipendere da un modello culturale economicistico.

Possibile che i membri di questo governo non lo sappiano o se lo siano dimenticato? Possibile che non facciano qualcosa, non solo per “salvare” il LES ma per salvaguardarlo, potenziandolo come “d.o.c.”, da sofisticazioni “made in Italy”?

Forse non intendono saperlo e farlo. È il momento che non solo dal mondo della scuola ma anche dalle Università e dalle istituzioni culturali giunga una voce convergente che si dissocia dallo scempio, dal vandalismo, dall’impostura in atto. E il tempo stringe.

Paolo Cinque (ex insegnante di filosofia scienze sociali, membro dell’associazione SISUS)