CON I PIEDI IN AVANTI

 

prigione

Il fenomeno ha assunto un rilievo che deve mettere tutti sul chi va là, anche coloro che sanno fare spallucce da veri professionisti dell’indifferenza sociale e purtroppo elettorale. Ben cinque morti ammazzati in nove mesi, cinque persone e non cinque cose, oggetti, numeri, lasciati a morire in perfetta solitudine senza provocare un sussulto di pietà. Forse è necessario che se ne parli, per essere vigili e attenti nei confronti di chi sta in carcere per scontare giustamente una pena ma non certamente per essere trattati come scarti da rendere sotto vuoto spinto da una volontaria e colpevole esclusione sociale. Non si tratta dei soliti più che sbandierati casi di tentativo di suicidio, tanto per assolvere e anche autoassolversi, ma di vere e proprie solitudini imposte fino alla morte.

La società odierna non ha commentato, non ci sono parole di buon senso, tanto meno di compassione, soltanto un muro di silenzio. Come a volere nascondere questa ulteriore derisione della vita umana dentro un perimetro in cui è stato insinuato ad arte il senso di solitudine, di abbandono, di vuoto, al punto da non riuscire più a consegnare al carcere alcuna percezione di sè, Ben cinque morti in poco tempo, colpevoli e innocenti accatastati l’uno sull’altro che decidono di farla finita, nello stesso luogo, nello stesso penitenziario, nella stessa indifferenza. Persone da poco entrate o poco prima di uscire con i piedi in avanti, mentre qualcuno si ostina a dare spiegazioni da sistemi complessi: “è il terrore dello stigma che manda in frantumi ogni certezza”, il che potrebbe anche avvicinarsi a una parvenza di verità. Ma il punto resta un altro, un carcere che non consente riscatto, risocializzazione, riparazione, rimane un carcere deprivato volutamente e colpevolmente della propria utilità e scopo.

Un carcere che non tiene in considerazione il dettato costituzionale tanto meno della severità del castigo e dell’umanità della pena, permane un luogo ove la presunzione di onnipotenza aumenta l’ingiustizia di una sopravvivenza resa impossibile perché disperata. Cinque corpi scomposti stanno a significare la violenza e l’illegalità con cui le istituzioni predicano l’importanza del rispetto per gli altri, accantonando quell’umiltà che determinati ruoli dovrebbero mantenere per risultare davvero autorevoli. Cinque suicidi in pochissimi mesi, non inducono le coscienze alla necessaria vergogna, figuriamoci a una riflessione costruttiva partendo dalle inculture, disvalori e punti deboli, su cui continuano a poggiare le fondamenta del mondo penitenziario.

“È un uomo chi sa che non è il solo ad affrontare le difficoltà, e perciò non ne ha paura, è un uomo chi sa vedere se stesso negli altri, riconoscendo la propria forza, ma anche la propria fragilità”.