Il sistema scuola: valutare la complessità (Davide Zotti)

 

zottiIl confronto con la complessità richiede l’esercizio del dubbio, la ricerca attraverso il dialogo e l’esplorazione intersoggettiva.  Valutare nella scuola implica sempre un discorso educativo, che non può espletarsi in un mero lavoro di riduzione dei fenomeni a una dimensione quantificabile e misurabile, se non mettendo a rischio il valore stesso della valutazione.

Parlare oggi di valutazione,  quando la scuola italiana è accusata di non avere una cultura della  valutazione,  quando nel  sempre  più confuso discorso politico  si  mette  demagogicamente insieme valutazione e meritocrazia, richiede innanzitutto una riflessione sul modello di scuola che abbiamo in testa, richiede attenzione e cura verso i diversi soggetti coinvolti nel processo valutativo, richiede uno studio attento degli strumenti finora utilizzati.

Il tempo che ho a disposizione è limitato, non potrò dunque scendere in analisi puntuali, ma il contesto in cui mi trovo, un seminario con la presenza di docenti e dirigenti della Rete di scuole Passaggi e dell’Associazione SISUS (Società Italiana di Scienze Umane e Sociali), della Presidente dell’Invalsi e della prof.ssa Clotilde Pontecorvo, mi permette di puntare ai nodi principali, lasciando all’approccio seminariale di questo incontro lo spazio per una discussione che entri nel merito delle posizioni che proverò ad illustrare.

Ritengo che la scuola oggi abbia sempre più bisogno di promuovere un approccio critico alla conoscenza, una scuola dove il ragionare trovi spazio in una comunità di ricerca, dove studenti e docenti sviluppino capacità dialogiche e relazionali, dove il discorso educativo si sostanzi nei tanti atti quotidiani del fare scuola, in cui il punto di vista, l’errore, l’interpretazione, il soggettivo siano occasione di crescita individuale e collettiva.

Le diverse possibili  risposte ad un’unica domanda,  l’attribuzione di senso nell’interazione con i testi aprono percorsi che dovrebbero caratterizzarsi per la presenza di riflessività, di creatività, di ritmi  che lasciano il  tempo per  la maturazione,  per  l’osservazione e l’autosservazione,  per  il ragionamento, per la richiesta di aiuto, soprattutto in quelle fasce d’età dove competenze emotive e cognitive si intersecano, producendo risultati positivi quando il clima è basato sulla fiducia e sul dialogo. Parafrasando il  titolo di un libro ancora insuperato,  e le cui  autrici  sono qui presenti, discutendo si impara: si impara nella relazione con il docente, con i compagni, s’impara stando nei problemi, a partire dai problemi e dai soggetti perché lo scopo dell’apprendimento è proprio quello di  saper  padroneggiare  le  modalità  di  accesso  alle  conoscenze  e  al  loro  utilizzo.  Ma  questa padronanza cresce nell’interazione,  nella consapevolezza che non vi sono risposte pronte all’uso, che la ricerca di soluzioni parte sempre da un riposizionamento, sollecitato dal confronto, da una riformulazione delle conoscenze e da una ridefinizione del problema.

In questo laboratorio, che dovrebbe essere la scuola, i soggetti sono persone, che imparano e che insegnano, status e ruoli distinti, ma tra loro interdipendenti; un laboratorio dove l’attenzione è posta  al  percorso  di  apprendimento  soggettivo,  sulla  base  di  un  processo  di  valutazione  che
rappresenta un continuum e che non si esplica all’arrivo ma descrive e informa l’intero percorso.

La valutazione non si aggiunge al termine della relazione educativa, quasi fosse la nottola di Minerva,  ma  ne  è  parte  essenziale,  si  costruisce  nella  relazione,  dà  forma  al  processo  di insegnamento-apprendimento.  Non  può  prescindere  dal  contesto,  dai  soggetti  coinvolti,  dalle strategie utilizzate; deve partire da una conoscenza attenta ai dettagli, ai bisogni, alle storie che ogni bambino  e  ogni  ragazzo  porta  con  sé.  Pensare  che  in  nome  di  una  (presunta)  oggettività  e standardizzazione, si possa de-contestualizzare e trattare con strumenti statistici semplificati realtà complesse  e dalle  mille  sfaccettature  come  gli  apprendimenti,  che sono sempre  agganciati  alle persone e alle loro tante variabili  di comportamento e di pensiero,  significa banalizzare se non stravolgere ciò che si vorrebbe conoscere.

L’obiettività è il punto di arrivo e non di partenza di una ricerca, soprattutto quando questa ha il compito precipuo di valutare. L’obiettività non è figlia della standardizzazione: si costruisce a partire da una conoscenza diretta della realtà che si vuole indagare, dal coinvolgimento degli attori del sistema, costruendo e calibrando insieme gli strumenti di indagine. È un lavoro lungo e faticoso, che gli insegnanti già fanno nelle loro classi attraverso la riflessione, l’ascolto e la predisposizione di strumenti  e situazioni sulla base sempre di un’intenzione educativa.  Altrimenti  non svolgiamo un’azione  valutativa  ma  una  semplice  misurazione  “quantitativa”,  che  ha  la  pretesa  di  essere oggettiva, ma in realtà manipola il suo oggetto di indagine (che è in realtà un soggetto), lo obbliga ad adeguarsi alla logica di chi ha strutturato le prove, stabilite a prescindere dal contesto. In questo modo la valutazione diventa il  letto di Procuste,  dove ogni soggettività è piegata in nome della confrontabilità e pseudo-oggettività dei risultati.

Nessuna griglia,  nessun quesito a risposta multipla o basato sulla logica binaria del vero/falso ci rassicurerà  sull’oggettività  e  quindi  sul  valore predittivo del  risultato,  se  nel  contempo non ci confrontiamo e non ascoltiamo i  significati  che i  nostri  studenti  attribuiscono a quelle risposte preconfezionate.

Esempio  paradigmatico  è  la  valutazione  della  padronanza  linguistica,  fenomeno  complesso  e articolato, tanto che nel  Quadro di riferimento della prova di italiano, predisposta dall’Invalsi nel 2013, si  fa riferimento ai  suoi tre ambiti  fondamentali  (oralità,  lettura e scrittura).  Tuttavia,  per motivi tecnico-organizzativi,  due dei tre ambiti  non vengono presi in considerazione:  produzione orale/ascolto e scrittura. Quindi le modalità più utilizzate nell’ambito scolastico vengono ignorate, in quanto non compatibili con le modalità del testing.

Resta dunque la competenza di lettura, che viene “misurata” in gran parte con domande a risposta multipla,  in  cui  vi  è  una  sola  risposta  corretta.  Per  un’analisi  puntuale  rimando  al  testo  di Ferdinando Goglia  Criticità delle  prove Invalsi  di  Italiano,  presente  nel  volume  I test  Invalsi.

Contributi per una lettura critica a cura del Centro Studi per la Scuola Pubblica e dei Cobas Scuola. Qui mi  limito solo ad evidenziare come le risposte corrette,  predisposte dall’Invalsi,  nell’ambito della  competenza  pragmatico-testuale,  siano  fortemente  limitate  da  una  rigida  restrizione interpretativa  imposta  da  una  procedura  di  valutazione  che  deve  ridurre  a  una  dimensione quantificabile e misurabile un fenomeno, come l’interazione con il testo, in cui l’esperienza della lettura  non può che partire  dal  ruolo della  soggettività per  mediare poi con la tradizione delle
interpretazioni e con il confronto con gli altri lettori, prima di tutto la classe e il docente.

Mi  viene  in mente  a  questo proposito una  delle  conversazioni  su argomenti  problematici  che Bateson chiamava metaloghi. In questo, intitolato Quante cose sai?, la figlia chiede al padre se ci sia mai stato qualcuno che abbia misurato quanto uno sapesse. Il padre le risponde che lo hanno
fatto, mediante prove e quiz, come se avessero cercato di capire quanto è grande un pezzo di carta gettandogli  contro dei sassi.  Tuttavia il padre dichiara di ignorare il  significato dei risultati.  Egli precisa poi che il foglio colpito di più dovrebbe essere il più grande, così come lo studente, a cui è
stato gettato un sacco di domande e le cui conoscenze sono state colpite di più, dovrebbe saperne di più. Ma in realtà questa soluzione, secondo Bateson, non può funzionare perché non considera che ci sono «diversi generi di sapere» e che «ci dovrebbero essere tipi diversi di voti per i diversi tipi di
domande». E alla fine il  padre conclude «Non si  possono mescolare i  pensieri,  si  possono solo combinare.  E alla fin fine  ciò significa che  non li  si  può contare.  Perché  contare  è  proprio aggiungere  semplicemente  una  cosa  all’altra.  E  per  i  pensieri  questo  non  lo  si  può  fare
assolutamente».

Come dicevo all’inizio valutare richiede attenzione e cura verso i diversi soggetti in esso coinvolti. In una dimensione valutativa seria e attenta al dialogo educativo, un alunno o uno studente non può essere  trattato  come  un  individuo  anonimo,  a  cui  non  può  essere  data  alcuna  informazione aggiuntiva, non concedendogli il tempo e l’opportunità, penso alla scuola primaria, di riflettere con calma,  di tornare sui suoi passi,  di chiedere aiuto, perché la rapidità della risposta non permette l’approfondimento e favorisce il  più delle volte il  convenzionalismo e il  pensiero convergente, mentre chi valuta, soprattutto le competenze meta cognitive, dovrebbe tenere in debito conto anche il pensiero divergente.

Infine  il  docente,  che  svolge  un  ruolo  fondamentale  nel  processo  valutativo,  non  può  essere ignorato, sospeso per un giorno dal suo ruolo educativo. Piegarlo ad una logica di sottomissione in cui  deve  dire  e  fare  ciò  che  altri  hanno  deciso  (mi  riferisco  in  questo  caso  al  Manuale  del
somministratore), o essere allontanato dalla sua classe perché potrebbe inficiare la scientificità del protocollo,  rappresentano  scelte  istituzionali  che  prima  di  tutto  spersonalizzano  la  relazione educativa, in secondo luogo attivano un dispositivo autoritario che nulla dovrebbe avere a che fare
con la scuola, luogo di confronto e di scelte consapevoli, dispositivo che colpisce invece la dignità professionale del docente, la sua esperienza e la relazione con i suoi studenti.

Chiudo il mio intervento con una riflessione della filosofa Martha Nussbaum che, guardando alla realtà statunitense e al sistema di test nazionali introdotto dal No Child Left Behind Act, così scrive: «Preparare  al  test  è  l’insegnamento  ormai  dominante  nelle  aule  scolastiche,  che  produce
un’atmosfera di passività fra gli allievi e di routine fra i professori. La creatività e l’individualità che contraddistinguono il miglior insegnamento e l’apprendimento umanistico hanno sempre più difficoltà a palesarsi.  Quando il  test  determina l’intero futuro scolastico,  le forme di rapporto
discente docente che non siano utili ai fini del test saranno verosimilmente compresse
». Anche in Italia sta accadendo in molte classi qualcosa di simile e ne è testimonianza la larga messe di volumi per addestrare gli studenti ad affrontare i testi  Invalsi,  tanto che qualche voce autorevole non ha
esitato a definirla editoria pornografica: conoscenza ridotta in pillole per «preparare i bambini ad affrontare  ogni  aspetto del  test  di  valutazione»,  come  recita  il  manuale  di  un’importante  casa editrice.

Facciamo allora in modo che la scuola italiana non sia straziata sul letto di Procuste preparato dall’Invalsi

Davide Zotti