Mondi intermedi e complessità (Iacono)

APPRENDERE AD APPRENDERE

Alfonso Maurizio Iacono – 30 marzo 2007

(intervento non revisionato dall'autore)

 

 

La chiusura dell’intervento del Professor Buiatti sulla virtualizzazione è un punto che mi sembra di straordinario interesse in questo momento per ragioni diverse.

Perché è vero che noi abbiamo una difficoltà cognitiva a sapere distinguere tra i diversi livelli di realtà, problema che ha a che fare anche con la questione dell’apprendimento. Se tra studiosi ci si mette a discutere di geni e di carattere sicuramente troviamo un accordo, molto diverso da quello che avviene tramite mass media, dove ci viene detto che a ogni gene corrisponde un carattere e quindi risolviamo il problema lo modifichiamo e così avremo figli con gli occhi a pallini blu.

Questo ha a che fare con l’apprendimento, sono convinto che molto dipende dal punto di vista scientifico, dai codici che noi usiamo.

Per esempio io ho fatto un incontro con la filosofia alle scuole elementari, opponendomi al concetto che alla scuola elementare bisogna fare solo cose semplici e divulgative, secondo una buffa piramide con la quale si ascende al cielo. Molto dipende dai linguaggi e dalla padronanza con la quale sappiamo usarli, sono convinto che se si usano i miti filosofici con i bambini, si raggiungono livelli di profondità che con il linguaggio specializzato non si raggiunge. Io parto dal presupposto che i linguaggi sono tutti traducibili e tutti irriducibili, noi non possiamo avere il linguaggio totale, nè profondissimo, abbiamo diversi tassi di profondità legati al tipo di linguaggio che si usa.

Non ragiono in termini di alto e basso, perché i media tendono a farlo elevando il gap, si assiste a una crescita di ignoranza con l’aumento delle informazioni, ma all’interno per esempio di famiglie blindate, c’è più difficoltà in realtà di accesso al sapere.

Ad esempio mercoledì ho provato un esperimento, ho messo in scena la teoria, non raccontando storie, ma facendo camminare i concetti, è stato molto difficile, ma vedremo cosa accadrà.

Il vero problema è capire come noi diventiamo autonomamente padroni dei luoghi dove avvengono i significati. Per esempio Buiatti diceva che non è vero che noi ci programmiamo, in definitiva cosa ha fatto il professor Buiatti? Ha applicato quello che Nietzsche diceva a proposito della verità, cioè diceva che le verità sono metafore di cui abbiamo dimenticato l’uso, allora ci appaiono come delle verità assolute e le accettiamo quanto tali. Le scienze hanno oggi questo ruolo imposto, diciamo apodittico, l’ha detto l’esperto, e allora una verità diventa ovvia e scontata.

Auguste RodinIl fatto che noi a scuola parliamo di debiti e di crediti, è un fatto metaforico certo, ma è dovuto al fatto che viviamo in una società dominata dal mondo economico bancario, così nella scuola questo è un linguaggio tecnico, ma in realtà è una metafora bancaria trasportata nell’apprendimento, e ancora peggio la dice sul fatto che noi le metafore non le padroneggiamo. C’è una caduta di senso critico quando noi naturalizziamo queste cose, le rendiamo scontate e ovvie, facciamo una valutazione su uno studente come fosse un estratto conto bancario. Alla lunga tutto questo incide.

Voglio sottolineare ora alcuni aspetti a cui tengo molto, parto da quel titolo al vostro convegno “Vedere attraverso” e addirittura quel quadro di Magritte del ’34. Voglio partire da una citazione di Paul Klee, dalla quale si comprende che il ruolo della pittura è rendere visibile, non riprodurre il visibile: “Si aprono dei mondi che appartengono anche alla natura, ma non tutti gli uomini lo possono penetrare con uno sguardo che è forse solo dei bambini, dei pazzi, degli uomini della società dei primitivi. Il regno dei non nati e dei morti, il regno di ciò che può e vorrebbe venire, ma non deve venire, un mondo intermedio. Lo chiamo così perché lo sento tra i mondi percettibili esteriormente ai nostri sensi e posso appellarlo intimamente e proiettarlo verso l’esterno in forme equivalenti. Sono in grado di guardarlo ancora o di nuovo come i bambini, i pazzi e i primitivi. E ciò che questi vedono e cercano è per me la più preziosa conferma, poiché noi vediamo tutti allo stesso modo, anche se da parti diverse e la stessa in generale e in particolare su tutta la terra, nessuna fantasticheria, ma una realtà dopo l’altra”.

Ora io ho voluto collegare questa citazione con alcune considerazioni che faceva uno dei più grandi psicoanalisti del ‘900 che è Donald Winnicott e che ha molto a che fare con l’apprendimento. Quello che ha detto Klee corrisponde a ciò che Winnicott ha scritto in un testo molto famoso “Oggetti transizionali e fenomeni transizionali”. Lì si parla di uno stato intermedio del bambino, tra l’incapacità da un lato e la crescente capacità di accettare la realtà. Tale stato intermedio ha a che fare con l’illusione che per Winnicott ha il valore cognitivo del riconoscimento della realtà, quindi l’illusione non è inganno, ma un costruire attraverso mondi una realtà.

Noi puritani pensiamo che l’illusione sia inganno, perché siamo determinati da una certa cultura, ma se così fosse ogni poesia sarebbe un inganno, ma la poesia è illusione che dà verità.

Winnicott studia la sostanza dell’illusione, quella che viene concessa al bambino e che nella vita adulta è parte intrinseca dell’arte e della religione e che tuttavia diventa il marchio della follia, allorché un adulto pone un eccesso di richieste alla credulità degli altri. Eraclito sosteneva che noi che non dormiamo e siamo svegli, condividiamo un mondo che è un modo della realtà che condividiamo insieme, ma se viviamo insieme in questo mondo condiviso non costruiamo senso critico, non apprendiamo, viviamo di pregiudizi, lo accettiamo così come è e chi ha qualcosa da dire passa per folle o per diverso.

Io credo che sia per Klee che per Winnicott non è questione di rapporto o di contrapposizione tra fantasia e realtà, è questione di spostamento del punto di vista, attraverso cui viene riconosciuta la realtà. Io mi sto muovendo su questa ipotesi, cioè penso che noi viviamo in un mare di mondi intermedi e voi me lo confermate, perché siete qui, ma starete pensando anche ad altro, sono mondi intermedi perché stanno concettualmente in relazione tra loro e perché ciascuno di esse non è una monade, non può vivere senza riferirsi a un altro mondo, è questo che ci permette di uscire da questi mondi, per esempio di pensare, come fa Buiatti, attenzione il modello che noi abbiamo del modello, del progresso è falso, perché è solo una metafora, un’idea, non è vero.

Noi possiamo venirne fuori solo se siamo in grado di simulare l’uscita, altrimenti non avremmo senso critico. Ad eccezione forse del sogno, ogni mondo costruisce la sua autonomia a partire dalla relazione con un altro mondo o universo di significato che a sua volta può essere percepito con la coda dell’occhio, ogni mondo fa riferimento a un altro mondo al quale somiglia e dal quale tende ad autonomizzarsi, ogni mondo trova la sua autonomia all’interno della relazione di almeno un altro mondo.

Voglio dire citando W. James, padre della psicologia, oggi fortemente recuperato, è lui che ci dice cos’è l’emozione, quando sento la paura prima mi batte il cuore e poi la capisco, è l’emozione che prevale e mi salva. Lui sostiene che il senso di qualcosa che noi pensiamo sia irreale, può venire soltanto se qualcosa è contraddetta da qualche altra cosa a cui pensiamo. Qualunque oggetto non contraddetto è ipso facto creduto e accettato come realtà assoluta. Il procedimento di accettare per esempio la realtà crediti/debiti come un fatto naturale, poi assoluto e poi non riusciamo più a vedere come cambiare le cose, dobbiamo essere coscienti dell’uso delle metafore, specie se le usiamo in un campo così delicato come quello valutativo. È impoverente che non lo si faccia mai.

La credenza in una realtà assoluta, per fare un esempio classico che nasce dalla filosofia, i prigionieri nella caverna di Platone che non hanno alcun mondo oltre quello delle ombre, anzi non hanno la differenza, non possono fare il confronto con altro, i prigionieri e loro le ombre non fanno passaggi, l’unico che lo fa è il prigioniero liberato che ha un arricchimento cognitivo. Le ombre sono la realtà che non viene discussa, noi ci portiamo dietro un concetto nel rapporto tra i saperi, che sta nella tendenza che noi abbiamo a identificare la verità con l’esattezza. Io non sono contro l’esattezza, ma non possiamo affermare che ogni verità sia vera solo se esatta.

Heidegger, discutibile per alcuni aspetti, ma valido per altri, nel ’38 aveva scritto in un saggio “L’epoca dell’immagine del mondo” che l’investigazione matematica della natura non è esatta perché calcola esattamente, ma deve farlo perché ciò che la vincola a calcolare in questo modo è il carattere dell’esattezza. È importante questo passaggio e noi viviamo l’esatto contrario, cerchiamo fondamenti continui.

Non il problema della verità è se mai la questione, ma il fatto che noi viviamo in un’ideologia dell’esattezza e dunque dobbiamo costruire una corrispondenza che ci confermi in questo.

Questa concezione nasce con la prospettiva, ecco il vedere attraverso, ma cosa vuol dire, nasce quando Leon Battista Alberti solleva il problema della metafora della finestra, proprio quella che ci porterà a windows, finestre del computer e che ci portiamo dietro fino alla finestra televisione e applica per la prima volta la geometria e quindi la matematica alla riproduzione del mondo. Siamo agli inizi del ‘400 ma dà risultati vertiginosi, è la prospettiva l’alta definizione che nasce allora come visione e pratica e che poi è diventata metodo assoluto.

Dato che ci dava una visione formidabile, altamente definita attraverso una finestra, poi tutta la pittura contemporanea ci ha fatto capire che la pittura non è prospettiva, perché non riproduce il mondo, ma non lo fa neanche la fotografia, perché è piena di punti di vista, l’aspetto cognitivo rilevante è quello della differenza.

Se mi permettete una citazione, un grande filosofo e poeta Coleridge che distingue tra due termini che sono la copia e l’imitazione, la copia è il trompe oeuil, cioè quella cosa di cui ti accorgi solo dopo che hai scoperto il trucco, non sei avvertito, se vedo una mela la devo toccare per capire che è di marmo e affermare che è una copia, mentre il grande pittore del Seicento che riproduce della frutta, non fa una copia perché qui prevale l’identità, mentre nella copia prevale la differenza. Ora l’elemento della differenza corrisponde al tema del passaggio e della percezione del passaggio, senza differenza non c’è conoscenza.

Le vacche direbbe Hegel sarebbero tutte eguali di notte se noi non percepissimo l’aspetto della differenza.

Torniamo a quel fatto che noi siamo abituati a identificare la verità con l’esattezza, Heidegger distingueva il concetto di rigore e quello di esattezza, ma possiamo davvero pensare che il sapere storico debba essere esatto? che ridotto il mondo a linea cifre abbiamo il potere di ridurre i saperi e le conoscenze a un unico metodo e a un unico modello? Quale esigenza pensiamo di soddisfare in questo modo, non desideriamo forse confermare le strategie della nostra cultura e della nostra storia, che però attribuiamo esclusivamente alle doti della natura? Non desideriamo rassicurare noi stessi sulla tenuta e sulla solidità del mondo? Questo bisogno dell’uno a tutti i costi, il cui corrispettivo alternativo è invece una molteplicità che io chiamo marmellata e che corrisponde molto al tutto eguale.

Non c’è un molteplice indifferente uguale negativo o un uno, secondo me c’è una molteplicità di mondi che si differenziano e si contrastano anche.

La questione della complessità è un tema che ci portiamo dietro, cito un grande biologo Conrad Hal Waddington, un maestro della scienza al bivio, per definire la nozione di complessità osservo che nessuno è ancora riuscito a darne una definizione significativa da permetterci di stabilire con esattezza il grado di complessità che caratterizza un dato sistema, cioè teorizza un’impossibilità metodologica che dovrebbe rasserenarci, è una botta all’onnipotenza, perché, nel caso delle scienze storico sociali, dove collocare il confine tra soggetto e oggetto, come interpretare i rapporti umani e le loro forme storiche di comunicazione e di riconoscimento.

Quale rilevanza hanno concetti come differenza, relazione, cornice, contesto nell’ambito di una riflessione sulla conoscenza. Intendo dire sono completamente dentro alla definizione epistemologica e alla sua operatività o sono i seminarietti che facciamo a lato nell’angolo buio e che non entrano poi nella pratica.

Perché attività come il gioco o la mimesi esprimono la natura complessa del nostro essere? Il gioco non è attività del tempo libero che noi consumiamo quando abbiamo finito di lavorare, è altro ovviamente, come diceva John Locke, l’occhio non può vedere se stesso e Vico nel riprendere questa osservazione e aggiungendovi che per fare ciò ha bisogno dello specchio, propose l’analogia fra l’occhio, la mente e la storia.

I filosofi, cito da Vico, trascurarono di studiare il mondo degli uomini, un mondo che poteva essere studiato proprio perché era stato fatto da loro stessi, la ragione di tale trascuratezza da parte dei filosofi, dipendeva dal fatto che la mente deve usare troppo sforzo e fatica per comprendere se stessa, come l’occhio del corpo che vede tutti gli oggetti fuori di sé e ha però dello specchio bisogno, per vedere se stesso. La difficoltà che prova la mente a indagare se stessa rende molto complessa la capacità di comprendere la storia da parte degli uomini, la storia che essi stessi hanno fatto. Non è vero, ci dice Vico, che siccome la storia è fatta dagli uomini allora la possiamo comprendere, l’operazione sia quindi facile.

Con l’analogia dell’occhio Vico ci conferma che l’approccio della storia non può che essere indiretto, egli arriva a dire che lo storico è tale solo se i fatti sono già accaduti e lui non ne è testimone, non sono i testimoni che possono fare la storia, il dramma dello storico ha questo limite, ma proprio questo limite gli permette di dare l’interpretazione di chi le cose le vede a distanza.

Vico non teorizza però la neutralità, ma che l’imparzialità deve nascere a partire da una interpretazione complessa che è data dall’analisi dei documenti, degli eventi di qualcosa che noi stessi come umani siamo riusciti a fare.

La domanda è questa: ma vale solo per la storia? Erwin Schrodinger fisico con forte propensione umanistica, in un saggio del 1947 scrive: “E’ difficile vedere il motivo per cui, nelle scienze fisiche si debba considerare un’eresia, quello che nelle scienze storiche è una cosa ovvia, cioè il trattare fatti e circostanze non accessibili all’osservazione diretta; gli storici fanno questo, che ciò sia inevitabile anche nella fisica ognuno lo deve ammettere, e ancora, mi sembra che nella fisica come nella storia, il risultato apprezzabile dei nostri sforzi sia di raggiungere un quadro d’insieme dell’argomento studiato, il soggetto interviene e organizza le cose. Un quadro che assume uno sviluppo sempre più chiaro, intuitivo e tale da rendere ben comprensibili i collegamenti di tutte le sue parti. Nella fisica, come nella storia, il nesso sarebbe interamente distrutto se ci credessimo obbligati, da scrupoli di verità, ad omettere tutto ciò che non è garantito da un giudizio immediato dei sensi o che deve essere sottoposto a dimostrazione. Oppure se ci sentissimo obbligati a formulare tutti gli enunciati in modo che possa essere percepito dai nostri sensi ciò che essi esprimono.”.

Pensate che sta parlando un fisico e l’analogia tra scienze fisiche e scienze storiche lo porta a mettere in discussione il confine tra osservatore e oggetto osservato.

Io non sto discutendo l’oggettività, ma un criterio assolutizzato di oggettività che è altra cosa.

Il Novecento riapre questo discorso, l’osservatore si rende conto che, sia pure in modo diverso, fa parte del contesto di osservazione. Dire questo non vuol dire perdersi nel peccato del soggettivismo più sfrenato, come spesso si pensa, perché siamo presi dall’idea che l’oggetto è qualcosa che non si tocca.

Il soggettivismo, il razionalismo, sono tutte balle, caratteristica del sapere scientifico è che deve essere pubblico, per esserlo deve essere sottoposto a verifica, non indiscutibile, ma dare i documenti ad altri per poter ricercare ancora.

Ora, Schrodinger scrive che rimane assodato che le recenti scoperte fisiche ci abbiano condotto fino a un confine misterioso che sta fra il soggetto e l’oggetto.

Questo confine non è affatto un confine preciso, ci siamo potuti rendere conto che non osserviamo mai un oggetto senza che esso sia modificato o influenzato dall’attività che abbiamo esplicato nell’osservarlo.

Ci siamo resi conto che l’urto dei nostri metodi raffinati di osservazione e di pensiero sui risultati delle nostre esperienze, ha infranto questo misterioso confine tra il soggetto e l’oggetto.

Emerge una cosa importante, cioè noi stiamo discutendo del fatto che è possibile pensare che c’è in qualche modo una relazione forte tra tutti i tipi di saperi. Relazione non di tipo positivistico, non si tratta saperi particolari di un sapere universale che qualcuno avrà in testa, un dio o chi sa chi e che quindi vengono omogeneizzati restando dentro l’immagine di una piramide.

Ogni sapere per questo ha cercato una sua epistemologia, mentre il presupposto in fondo implicito era che tutti dipendevamo dalla fisica, l’idea che ci fosse una omogeneità di fondo, anche nella epistemologia della ricerca, a cominciare dalla biologia.

Ogni sapere ha cercato la sua autonomia che io chiamo autonomia nella relazione, non è autoreferenzialità, non è solitudine, ma autonomia perché il grande problema del Novecento è stato quello di discutere contemporaneamente l’oggetto e le condizioni di conoscenza dell’oggetto.

Perché fatto scientifico non è solo come descrivi l’oggetto o lo interpreti ma le modalità dell’interpretazione, cioè quando e come faccio un’operazione di scelta.

Il biologo Steven Rose in questo bel libro, tradotto ora anche in italiano, “Il cervello del ventunesimo secolo” ha sottolineato la presenza di un confine semiaperto che separa il sé dal non sé, parla di cellule, rappresenta una delle caratteristiche principali della vita a partire dal livello cellulare. È l’immagine in cui un confine non separa ma unisce, nella sua forma più semplice questo sistema non richiede né cervelli, né sistema nervoso, quantunque necessiti di un sofisticato insieme di caratteristiche fisiche e chimiche, nelle sue forme più complesse, la presenza di confini e di contesti determina il modo di comportarsi e di agire e di modificare i propri programmi di azione che è ciò di cui in ultima analisi si occupano i cervelli.

I confini e i contesti sono appunto decisivi per la dotazione di senso di ogni apprendimento e di ogni comunicazione. La conoscenza di quella che Bateson chiama metacomunicazione, la distinzione fra mappa e territorio, la cornice come oggetto di conoscenza, essere avvertiti che c’è una cornice, è un presupposto necessario per quel tipo di apprendimento che utilizzando un’immagine kantiana potrebbe essere definita come l’uscita dalla minorità.

L’illuminismo era proprio questo per Kant e ce ne corre ancora per uscire dallo stato di minorità, si deve ancora compiere questo tipo di illuminismo.

Chi non percepisce quei confini in cui ciascuno viene a trovarsi, dando significato agli eventi e alle cose mette in pericolo la propria autonomia.

Se il contrasto fra differenze e realtà viene fatto sparire e gli uomini non percepiscono più i confini al cui interno essi operano, allora si rischia di tornare a essere quelli che erano i prigionieri della caverna di Platone, i quali vedono ombre e pensano che siano cose, non sanno che esistono mondi al di fuori dalla loro caverna, non conoscono uomini che vivono senza catene non hanno consapevolezza di essere prigionieri. Quando ritornerà il prigioniero liberato essi non gli crederanno, non crederanno che esistano universi differenti da quello della caverna e lo minacceranno di morte, di solito questo particolare la storia non lo racconta, ma lo racconta Platone.

Ora si parla della capacità di uscire dai contesti e di saperli vedere come dal di fuori, ed è quello che si sta perdendo in questo momento.

Immaginatevi la situazione in cui ci troviamo, la televisione che sta in casa, accesa 24 ore no stop, si guarda e non si guarda, poi si risponde al cellulare, magari si cucina, sembra tutto normale, e pure ciò è esattamente il contrario di quando leggiamo un romanzo, andiamo a teatro, al cinema, cioè entriamo in una situazione, ci aspettiamo delle cose e poi usciamo anche fisicamente dal luogo. Invece da queste situazioni “marmellata” noi non usciamo mai e questo problema sta diventando di tipo cognitivo e di formazione.

Piccole cose che non si vedono, ma che ci determinano la vita senza che ce ne accorgiamo. La capacità invece di saper vedere e uscire, è fondamentale perché è così che noi siamo capaci di essere due cose.

Per esempio noi crediamo e non crediamo nello stesso tempo, non è vero il senso cartesiano di verità, cioè che o crediamo o non crediamo, è una balla, noi facciamo insieme tutto questo, ad esempio ci coinvolgiamo e non ci coinvolgiamo.

Se vado a teatro, come dice Borges, mi abbandono alla finzione, cioè mi do un atto di verità proprio quando entro nella finzione, credo e non credo.

Ecco di nuovo il gioco, giocare è esattamente il doppio livello in cui noi ci troviamo, è come uno stare al confino ma carico di significato, come un interfaccia, viviamo questa dimensione.

L’azione da sola senza la capacità di uscire fuori da questi confini, rischia di diventare ripetitiva, cioè perde il senso di rottura, si naturalizza, si trasforma in comportamento e quindi inserisco la distinzione tra azione e comportamento.

L’azione è ciò che tu fai come individuo, nasce la tua storia individuale, invece il comportamento è l’elemento omologante, necessario nel senso che facciamo tutti le stesse cose ed è osservabile.

Kant definiva l’illuminismo come l’uscita dalla minorità, e intendeva con questo l’uso dell’intelletto senza la guida di un altro, ma per raggiungere questo stadio dell’autonomia collettiva e individuale è di importanza capitale che il mondo non appaia senza alternative.

È necessario come suggerisce Bateson, sapersi tirar fuori dai contesti, percepire la differenza, rendere esplicita la frase non detta “questo è un gioco”, metacomunicazione mentre giochiamo e intanto trasformarla.

Quando Primo Levi parla del lager, della zona grigia in Sommersi e salvati, quando parla dei musulmani, cioè di quelli che ormai sono andati in catatonia, ci segnala che i lager possono rappresentare un momento di riflessione rispetto alla dimensione del potere, punta estrema e crudele dei rapporti di privilegi. I lager sono totalizzanti e le società totalitarie non possono essere come i lager, perché fuori c’è un’opinione pubblica, c’è sempre qualcosa a cui ti puoi appellare, ma nel lager c’è la chiusura totale.

Il senso estremo del totalitarismo è dunque l’impossibilità di uscire dal contesto terribilmente fisico e atroce quale può essere un lager. Steven Rose fa notare che l’autonomia è precisamente quello che non si può realizzare, la ragione di ciò consiste nel fatto che lo sviluppo di ogni organismo avviene sempre in un contesto, l’autonomia è intesa come autoreferenzialità e isolamento, e non può essere disaccoppiato dall’ambiente. Qui c’è una corrispondenza perfetta di questa autonomia nella relazione, nel campo biologico con il problema etico sociale politico dell’apprendimento, di quella che io chiamo autonomia nella relazione, del fatto che si diventa autonomi soltanto modificando il contesto di relazione, ma mai annullandolo.

Uno dei miti della nostra società è quello dell’autonomia senza relazione, non è il mondo greco che ha posto questo, però in parte con la tradizione mistico cristiana e poi soprattutto con la ragione moderna il grande mito è stato l’autonomia senza relazione: Robinson Crusoe si trova nell’isola e ci fa credere che si ricostituisce il mondo a partire da zero, una storia che è edipica, tra maschi adulti che si scannano tra loro per il potere, vedi i fratelli Karamazov, Amleto, tutte storie di cui Freud ha parlato a lungo, in cui l’autonomia deve essere rotta o con la fuga o con l’omicidio. Ne nasce un’autonomia, come mito è ovvio, separata del tutto dalla relazione.

Già Marx aveva però rilevato che quando Robinson sogna di stare nell’isola deserta in realtà non è solo, perché utilizza molti oggetti che sono storie di lavoro cristallizzato, quindi non è una vera solitudine.

È possibile immaginare un’altra storia? Sì è possibile, è quella legata al concetto di riconoscimento, una tradizione che arriva a Winnicott e che parte dall’idea che perfino quando hai una relazione di potere che si trasforma in relazione di dominio sei costretto a essere riconosciuto dall’altro. Posizione di dominio è vero ma che comunque ti fa dipendere dall’altro.

Hegel ha costruito su questa idea la sua dialettica servo/padrone in sostanza, ci ha dato questo messaggio che è stato ripreso nel Novecento e un grande teorico dell’apprendimento quale Winnicott ha ripreso questo tema in altra chiave, nel rapporto madre/bambino, in cui è chiaro che il bambino costituisce la propria autonomia non in assenza della madre, ma simulando l’assenza perché con la coda dell’occhio, sa che la madre c’è e dunque la modifica. L’autonomia avviene come modifica storica della relazione, dove l’autonomia di un bambino si sviluppa in questa relazione con la madre. La capacità di imparare a camminare da soli, dipende dal fatto che siamo capaci di modificare la relazione con il mondo, essere consapevoli di questa modifica.

Questo è oggi un nostro problema, la difficoltà che viviamo a essere consapevoli delle nostre identità.

Parlare di perdita di memoria vuol dire sapere ciò che avviene a livello della comunicazione di massa, i mass media danno la notizia principale, mettiamo tsunami, dura cinque giorni, poi comincia a scemare sostituita da un’altra notizia più catastrofica o solo più recente e così ci devastiamo la mente e perdiamo il senso lungo della storia.

È un fenomeno che individuo bene con gli studenti universitari, c’è un restringimento sul piano della storia e questo è un pericolo grave, perché attacca le identità che sono costruite sulla nostra capacità di differenziarci noi stessi nei passaggi della nostra vita. Se questo si accorcia e viviamo in un eterno presente, in un’eterna adolescenza, oramai non invecchiamo più, frantumiamo l’identità e viviamo in una fase di grande povertà culturale che ha a che fare con le scienze naturali e con le scienze sociali.

Faccio un esempio, noi siamo nella fase della totale patologizzazione del normale, il patologico è vero che ci permette di leggere il normale, ma ora c’è un impoverimento delle passioni e delle emozioni, se non siamo più in grado di distinguere tra malinconia, tristezza e depressione. Finiamo con il pensare che ci vuole una pillola e un dottore per risolvere ogni problema, voglio precisare che non amo il dolore e difendo l’uso degli antidolorifici, ma dobbiamo comprendere, perché ci appartiene ciò che ha a che fare con il nostro dolore e con il nostro vissuto.

Io credo che ci stiamo avviando verso una grave crisi proprio nella formazione della identità e credo ancora più fortemente che la scuola debba interessarsi di questo, questo è alla base del rapporto tra apprendimento e autonomia, le due cose devono andare insieme. Ma in questa situazione di eterno presente noi siamo dipendenti, ed è lì che vedo il ritorno del mondo unico, anche se viviamo in democrazia, se abbiamo il pluralismo, e così via.

In ultimo c’è una distinzione a me cara su questo terreno, la riprendo da Foucault, è quella tra stati di dominio e stati di potere, sappiamo bene che i rapporti di insegnamento, come quello tra padre e figlio, o tra terapeuta e paziente, sono relazioni di potere e così vanno esplicitate, quello è il contesto. E pure il grande pericolo non è questo, il potere esiste e lo sappiamo, ma il pericolo è negli stati di dominio, quando le relazioni di potere vengono cristallizzate, quando un padre, un insegnante, un terapeuta fanno di tutto per operare perché le cose restino ferme, cioè fanno di tutto affinché il bambino che prova a camminare e cade resti nel girello, decidono per lui che non è pronto.

Consentitemi il paragone: siamo tutti nel girello, è dorato, accessoriato, bello, comodo, ma siamo tutti dentro, infilati in questo metaforico girello.

Noi dobbiamo consentire che la scuola sia formazione e non solo informazione, dato che di quest’ultima ne abbiamo in eccedenza.

La vera autonomia sta nella capacità di saper metabolizzare le informazioni, quando questa capacità è assente, io vedo in questa mancanza un grave pericolo ed è per questo che voglio affermare e difendere fortemente il concetto di formazione.

 

Alfonso Maurizio Iacono